Tra un mese, il prossimo 19 gennaio del nuovo anno, cadrà il ventennale della morte di Bettino Craxi. C’è da augurarsi che ancora una volta non si scateni la solita trita polemica, volgare e violenta, come purtroppo è accaduto in questi anni e anche in tempi recenti.
È innegabile che esiste (non risolta) una questione Craxi e quindi sarà inevitabile una riflessione intorno all’operato di un leader che ha segnato con la sua presenza e le sue idee una intera stagione della politica italiana. Dovremo dare una risposta alla domanda se il socialista Bettino Craxi sia stato un grande statista oppure un latitante sfuggito ai rigori della legge, anche se per rispondere basterebbe riascoltare, con un po’ di attenzione, il Suo discorso alla Camera dei Deputati del luglio 1992: ci accorgeremmo che seguendo il filo della sua analisi si sarebbe potuto realizzare una riforma dei partiti e delle istituzioni e dare una soluzione politica alla questione morale, senza passare attraverso il buio della reazione populista e giustizialista che ha distrutto formazioni politiche e classi dirigenti lasciando il paese in mano alla “società civile”, una espressione usata per indicare una realtà sociale contrapposta al sistema politico-istituzionale e che è stata utilizzata da noti giornalisti della carta stampata e della televisione per denunciare le responsabilità di quel sistema.
Quei stessi giornalisti che ad esempio non hanno visto, non hanno sentito, o forse non c’erano, quando si progettava e poi si realizzava la svendita che è seguita a tangentopoli di tutti i “gioielli di famiglia” dall’IRI alla STET, alla MONTEDISON oppure si erano distratti quando a Bruxelles si consumava la subalternità italiana per un cambio lira-euro, frutto della pressione francese, che ci ha fatto improvvisamente trovare in tasca la metà del salario.
Craxi è stato l’espressione più alta di quella classe dirigente che si opponeva al disegno di smantellare la potenza industriale dell’Italia, dalla chimica alla comunicazione, e che ha cercato negli anni ‘80 di realizzare una riforma dello Stato e della politica per edificare un’architettura istituzionale che potesse far uscire il nostro Paese da quel consociativismo democristiano-comunista che ha condizionato la modernizzazione e lo sviluppo della comunità nazionale.
Tangentopoli è stata una gigantesca messa in scena sul palcoscenico della provincia Italia per favorire, dietro le quinte, quelle forze economiche e politiche interessate a nuovi equilibri dei poteri nel nostro paese. Forse è necessario ricordare che in una vicenda di corrotti e corruttori, a pagare furono soltanto i corrotti, cioè i politici, mentre i corruttori, dopo un rapido passaggio nei corridoi della Procura di Milano potevano tornare nei loro Consigli di amministrazione e da lì cercare di ritagliarsi uno spazio nella distruzione dell’industria di Stato: agirono con una visione corta del proprio futuro con il risultato di essere costretti a passare la mano agli investitori esteri e ai fondi di investimento.
Il recente accordo Peugeot-FCA, che significa in pratica l’acquisto da parte della casa automobilistica francese di ciò che restava della Fiat, è l’ultimo atto di questa corsa suicida. Le vittime più illustri di tangentopoli sono stati probabilmente Raul Gardini e Gabriele Cagliari, che ebbero il torto di credere di poter realizzare in Italia un grande progetto della chimica con la forza delle idee e del danaro senza contare che cosa era nel nostro paese quella razza padrona che un tempo aveva ottenuto da Mussolini di far fermare un treno in piena campagna per risolvere problemi familiari di un illustre suo appartenente… e così l’unica cosa da fare per la Procura di Milano fu quella di accusare Sergio Cusani, il professionista di fiducia della famiglia Ferruzzi, di reati collegati alla joint venture tra ENI e Montedison, chiamata Enimont: il processo, in diretta televisiva, servì a mettere alla gogna tutti i leader dei partiti di governo. Il resto è noto. Nel processo emerse anche, che una valigia contenente denaro era pervenuta in via delle Botteghe Oscure, nella sede nazionale del PCI, ma le indagini si erano arenate, dato che non si erano trovati elementi penalmente rilevanti nei confronti di persone fisiche.
Ad assistere al tutto, Romano Prodi, presidente dell’Iri. Poi presidente del Consiglio. Poi Presidente della Commissione europea. Poi, di nuovo presidente del Consiglio. Poi, Nume tutelare, a disposizione. Il professor Prodi potrebbe raccontarci molte cose di quella vicenda ad iniziare dalla fine dell’IRI che fu liquidato alla chetichella, chiuso dalla sera alla mattina non per questioni di merito ma in base a pregiudiziali ideologiche, sull’onda della “rivoluzione di mani pulite”, per finire alle privatizzazioni delle industrie di Stato come per esempio la Cirio, cessata di esistere dopo la sua svendita e di cui è rimasto solo un marchio ballerino. Pietro Armani, consigliere di amministrazione dell’IRI, è morto senza aver visto affermate o negate le sue accuse su quell’ “affare”.
Ha scritto Augusto Minzolini: “L’avvento del Prodi “politico” fu progettato, programmato. Fu il tentativo di ricostituire un “ordine” dopo Tangentopoli. Ricordo un aneddoto: pochi mesi prima di essere costretto a lasciare l’Italia, a poche settimane dall’episodio delle monetine davanti al Raphael, Bettino Craxi, che io seguivo assiduamente come cronista politico de La Stampa, mi consegnò un documento, senza intestazioni, di 13 pagine. Dentro c’era un’analisi che individuava in Tangentopoli uno strumento per privatizzare i gioielli dell’economia italiana (era menzionata anche la famosa riunione sul Britannia, quella nella quale la grande finanza internazionale aveva immaginato un “dopo” per il mondo post-comunista e per il nostro Paese): ebbene nell’ultima pagina di quel documento, siamo nel 1993, si parlava di un possibile governo Prodi… Dopo qualche settimana mi fu detto – ma non ebbi mai una conferma ufficiale – che quel documento era un rapporto dei servizi segreti tedeschi sui piani della finanza anglosassone. Fantapolitica? Probabilmente, ma ho sempre pensato che Prodi fosse un predestinato. L’uomo su cui l’establishment italiano – quello che era venuto fuori dalla democrazia cristiana e dal partito comunista – aveva puntato per portare l’Italia nella seconda Repubblica.” (Augusto Minzolini “Quando il retroscena conquista la ribalta” in “Passi perduti” di Giorgio Giovannetti, 2018).
Sarà utile rileggere le cronache di Tangentopoli alla luce di quanto è accaduto dopo, con diverse leggi elettorali, per consentire la nascita di nuovi partiti o la rinascita di vecchi, oppure movimenti che uno dopo l’altro si sono candidati a governare senza averne cultura e capacità e soprattutto, salvo qualche eccezione, esprimendo una classe dirigente non in grado di restituire alla politica il prestigio perduto e alla democrazia liberale il necessario equilibrio dei poteri.
E così, periodicamente, la mattanza continua. Inseguito per un decennio da tutte le procure è tramontata la stella di Silvio Berlusconi, il tycon della tv commerciale che si era illuso di farla franca sposando il linguaggio dei populisti e mettendo al loro servizio le sue reti.
Al suo posto è salito sul palcoscenico Matteo Renzi, sicuramente il più “politico” dell’ultima generazione di politici. Si può essere d’accordo con lui o meno, ma aveva un progetto per il Paese: ricreare un soggetto politico in grado di governare l’Italia da una posizione di centro. Che sia una sinistra che guarda verso il centro, o viceversa, per Renzi poco importava. Non era una novità ma uno schema con cui la democrazia cristiana aveva governato nel secolo scorso, anche se bisogna dire che l’aggiunta di intenzioni rottamatrici e di riformismo anticorporazioni, dopo vent’anni di Seconda Repubblica, era apparso a molti del suo ex partito un progetto estraneo alla cultura cattocomunista del PD e da eliminare presto, e con ogni mezzo, dal dibattito politico.
Allo spegnersi dell’esperienza del leader fiorentino si accendeva il Movimento 5 Stelle: l’eredità della protesta delle monetine del Raphael la prende Beppe Grillo con i suoi “Vaffaday”, una nuova puntata del populismo made in Italy. Tuttavia è giusto riconoscere che i “grillini” hanno incanalato il malessere nel solco dell’antipolitica assolvendo ad una funzione positiva, evitare che il malumori vestissero i gilet gialli o addirittura la camicia nera dei nostalgici del fascio. Il problema è nato nel momento in cui, con le elezioni del 2018, il Movimento ha dovuto assumere i connotati di un nuovo ceto politico di governo. La mediocrità dei suoi rappresentanti è sotto gli occhi di tutti e il primo ad esserne consapevole è Beppe Grillo, l’apprendista stregone che non riesce a gestire la sua alchimia.
E poichè in politica non esistono vuoti di potere ecco che dalle quinte spunta il nuovo pretendente, Matteo Salvini, l’ultimo arrivato che si è preso la scena. Tutto lascia supporre che tra Di Maio da una parte e i magistrati dall’altra, con un Bossi non troppo soddisfatto di avergli ceduto il posto, lo spettacolo non durerà a lungo. Il povero Matteo ha alzato troppo la posta, tra comunismo padano e sovranismo rischia sempre più di perdere il filo del discorso politico, insidiato da una Giorgia Meloni ormai tutta protesa fuori della Garbatella, il popolare quartiere romano che un tempo costituiva tutto il suo feudo.
La morte di Bettino Craxi fuori dalla patria è stato il segno più evidente di un rigetto che una parte dell’opinione pubblica – ingannata dal circuito mediatico-giudiziario e dalla propaganda populista della televisione commerciale e dei pifferai del servizio pubblico RAI – ha nutrito verso il partito socialista che in Parlamento e al Governo ha saputo garantire, malgrado la tragedia del terrorismo, pace sociale e sviluppo economico, frenando, nello stesso tempo, le tentazioni assolutiste del partito di maggioranza relativa e la vocazione egemonica del partito comunista.
Non tutti i socialisti lo compresero fino in fondo: abbandonarono Craxi e la sua linea politica per il timore dei nuovi equilibri politici e istituzionali. Craxi restò solo: la responsabilità politica non va ricercata solo negli altri partiti, nei giudici di mani pulite e nei giornali legati alla grande industria che li sostennero. Alla fine pagarono coloro che si erano più esposti: ricordiamo i 34 suicidi che accompagnarono la fanfara di “mani pulite”.
Cogliamo l’occasione della commemorazione della morte di Bettino Craxi per aprire una fase nuova: dopo il tempo della abiura lasciamo il passo ad una riflessione più serena, alziamo lo sguardo oltre i confini del presente, ricostruiamo la memoria di un popolo umiliato e offeso dalla dittatura fascista, capace di conquistarsi un rinnovato prestigio e di realizzare nel giro di pochi anni, sulle macerie della guerra nazista, un vero miracolo economico.
Il ritrovarsi ad Hammamet il 19 gennaio 2020 può essere l’occasione per l’inizio di un esame di coscienza collettivo. Noi di Moondo ci saremo, consapevoli che l’epilogo è tutto da scrivere: uno di noi ha iniziato a farlo scrivendo un libro documentato che sarà in libreria dalla metà del prossimo mese in cui si tenta una riflessione su quanto accaduto 30 anni fa (Mario Pacelli, Ad Hammamet, edizioni Graphofeel, 2020) augurandoci che qualcuno non rovini tutto mettendo in scena una passerella per pentiti con il cappio o con le monetine.
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