I colori della bandiera italiana che le decorano l’occhio sinistro disegnano una foglia leggera. La sua voce di bambina scandisce, a memoria, il testo di una vecchia canzone partigiana: Bella ciao. Avrà all’incirca undici o dodici anni. La chiameremo Fatima, per tutelare la sua infanzia innocente, anche se il suo vero suo nome in arabo significa “colei che raccoglie, accumula”. Una suggestione che pare ricercata a vedere la nuvola di compagni di giochi che le danza intorno. Sono tutti trascinati dalla musica che anima la notte del Pilastro, in piazza per rivendicare la propria onestà. La capacità di accogliere, di essere comunità. Il quartiere di Bologna portato alla ribalta da Matteo Salvini, a caccia di spacciatori, ieri sera è sceso in strada per proclamare il proprio “no” alla politica dell’odio e della violenza.
Una marea di gente inattesa, e forse insperata, si è ritrovata nello spazio intorno alla biblioteca di quartiere intitolata, in maniera significativa, a un immigrato meridionale: Luigi Spina. Insieme al teatro, “la Cupola”, il circolo “La Fattoria” e le scuole, quella biblioteca è uno dei luoghi simbolo del Pilastro. Una comunità in trincea fin dalla nascita negli anni Settanta, quando i primi comitati degli inquilini riuscirono ad ottenere una modifica delle previsioni urbanistiche iniziali. Da mero agglomerato di case popolari destinate ad operai e immigrati, il quartiere riuscì ad ottenere servizi e collegamenti divenuti l’orgoglio dei residenti. Non un dormitorio degradato, ma uno spazio di comunità vivo. Il Pilastro rivendica con forza questa sua storia di militanza e resiste, da sempre, allo stigma di una narrazione pubblica che ne ha fatto il quartiere della Uno Bianca. Non senza negare i problemi che ci sono stati (drammatica fu la fase delle famiglie mafiose al confino) e che permangono, ma senza nemmeno rassegnarsi a un destino che qualcuno vorrebbe segnato da delinquenza e abbandono.
Al Pilastro c’è “Masaniello”, una pizzeria che utilizza prodotti provenienti dai beni confiscati alle mafie e ospita una trasmissione radiofonica che si occupa di autismo. C’è un teatro che, insieme alle scuole, lavora molto con e sui ragazzi: sul loro disagio ma anche sui loro sogni e le loro speranze. Come quelle di Yaya. Yaya il calciatore, a diciassette anni trasformato da Matteo Salvini in Yaya lo spacciatore.
Ma la gente del Pilastro, ancora una volta, non ci sta. Ventinove anni dopo l’eccidio dei tre carabinieri, tante, tantissime persone hanno voluto ribadire che loro non sono né quelli della Uno Bianca, né gli spacciatori e i delinquenti raccontati da giornali e televisioni. «Chi ferisce il Pilastro troverà sempre questa reazione», ha detto Simone Borsari, presidente del quartiere San Donato di cui il Pilastro è parte. Dopo di lui, uno alla volta, hanno preso la parola i rappresentanti dei movimenti, delle associazioni e delle istituzioni del posto, rivendicando con orgoglio di essere parte di una comunità troppo spesso diffamata. Lo stesso Yaya ha parlato. Pochi minuti. Di fronte a lui Fatima e la sua combriccola proveniente dalla Tunisia, dal Marocco, o da chissà dove: una piccola tela su cui è impressa la storia di quest’Italia affondata nel Mediterraneo.
I loro volti raccontano di radici lontane, ma le loro bocche parlano la lingua del presente. Il nostro ed il loro. Sullo sfondo, la musica di un sassofono, due trombe e un flauto. Quattro fiati incrociatisi, per caso, con la banda festante di XM24, un centro bolognese: erano tutti lì per sostenere il Pilastro antifascista. Suonando insieme, hanno improvvisato “Bella Ciao”. Una canzone italiana e partigiana, conosciuta a memoria da Fatima: la bimba che viene da lontano e porta il tricolore disegnato sugli occhi.
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