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Boves: la prima strage nazista dopo l’8 settembre

Tra le stragi naziste sono notissime quelle di S.Anna di Stazzema e quella di Marzabotto, non fosse altro che per l’altissimo numero di morti. Meno conosciuta, con meno caduti per fortuna, ma ugualmente tragica quella di Boves, in provincia di Cuneo, perché avviene con un atroce inganno da parte dei tedeschi a soli dieci giorni dalla resa italiana agli alleati.  

Boves non ha neanche 10 mila abitanti, tra paese, frazioni e cascine sparse sui monti cuneesi. Non li aveva nemmeno il 19 settembre 1943.

Era un posto poverissimo, di contadini che lavoravano fazzoletti di terra strappati alla montagna. Molti emigravano. Gli altri, fossilizzati da un isolamento secolare, vedevano lo Stato come una entità lontana. Quel tragico settembre “era buono per i funghi. Il padrone del caffè Cernaia imbottigliava il dolcetto arrivato da Dogliani; nella calzoleria Borello si preparavano gli zoccoli, per i giorni di fango e di neve. Le cose di sempre in un villaggio piemontese che non aveva capito la guerra e neppure la confusione, dopo la disfatta; vissuto per secoli nel suo quieto sogno di alberi, di fontane, di vicende e di commerci minimi; costretto ora a esprimere in poche ore, in una luce rossastra, tutta la capacità umana di soffrire”, si legge sul sito dell’Associazione partigiani di Lissone (Monza).

Ma se i bovesani stanno chiusi nelle loro cascine e nella loro povertà, giù a valle, le cose avevano cominciato a muoversi. A pochi chilometri c’è Cuneo, il capoluogo. E a Cuneo c’è Duccio Galimberti, medaglia d’oro per la resistenza, morto per le sevizie dei fascisti che lo avevano catturato, nel 1944. Già il 26 luglio 1943, il giorno dopo la caduta di Mussolini, Galimberti (da tempo militante clandestino del Partito d’azione) avverte i suoi concittadini, in un comizio improvvisato, che “La guerra continua fino alla cacciata dell’ultimo tedesco e alla scomparsa delle ultime vestigia del fascismo”. Arrestato e rilasciato dopo tre settimane, comincia da subito a reclutare le brigate partigiane di Giustizia e Libertà, il braccio armato dell’omonimo movimento politico fondato a Parigi dai fratelli Carlo e Nello Rosselli . Quando arriva l’8 settembre, Galimberti, dunque è già pronto.

Ma tutto il Piemonte, all’immediato indomani dell’armistizio è in fermento. “Il fiume di sbandati che arrivavano dalla Francia dopo aver valicato le Alpi– scrive Giovanni De Luna in La Resistenza perfetta – si mischiò con i mille ruscelli che sgorgavano della dissoluzione dei reparti, numerosissimi, acquartierati sulle restanti montagne e vallate delle Alpi occidentali e nella pianura piemontese”. Non solo. Tutta la regione era piena di soldati, perché – come ha scritto Gianni Perona in Le Alpi come posta in gioco – quelle montagne, dopo essere state trasformate “in una ridotta potentemente fortificata” non era stata troppo coinvolta dalla devastazioni della prima guerra mondiale come era successo invece nelle Alpi orientali. “Per quella stessa ragione, il Piemonte diventò una immensa riserva di soldati specializzati, gli alpini, addestrati alla guerra di montagna” (Perona). E, a parte quelli che erano stati spediti in Russia, moltissimi scelgono di stare contro i nazifascisti. C’era anche chi, come i soldati meridionali, con l’Italia divisa in due, non riesce a tornare a casa e trova rifugio nelle vallate del cuneese. Nasce così una resistenza spontanea, spesso travolta della reazione tedesca. Come a Boves.

Sulle pendici della Bisalta, il monte che sovrasta Boves, si costituiscono subito le prime bande. Una delle più importanti è quella guidata da Ignazio Vian, un ex sottotenente della Gaf (la Guardia alla frontiera, la polizia di confine del regime) di 26 anni che nemmeno un anno dopo, nel luglio 1944, sarà catturato, torturato e impiccato dai fascisti a Torino. Sarà una delle prime a muoversi con i sabotaggi ed i combattimenti contro le SS. Motivo per il quale già dal 16 settembre c’era stato un proclama nazista per comunicare alla popolazione che i fuoriusciti dall’esercito italiano saliti in montagna, sarebbero stati  liquidati come banditi, e che chiunque avesse dato loro aiuto o asilo sarebbe stato perseguito. Sempre il 16, il maggiore Joachim Peiper  va a Boves, fa riunire in piazza tutti gli uomini e minaccia di bruciare il paese se tutti i soldati alla macchia non si presenteranno.

Tre giorni dopo, il 19 settembre , una Fiat 1100 con due SS arriva in paese alle 10 del mattino e incrocia un gruppo di partigiani che li raggiungono, li disarmano e li catturano senza che questi oppongano resistenza, e li trasportano in Val Colla, sopra Boves. Verso mezzogiorno un reparto di SS attacca le posizioni della formazione di Vian, ma viene respinto e in meno di un quarto d’ora le truppe tedesche sono costrette a indietreggiare. Restano sul campo un marinaio genovese Domenico Burlando e un soldato tedesco, il cui cadavere viene abbandonato dai commilitoni in ritirata.

Alle 13 arriva a Boves il grosso del reparto tedesco, comandato proprio da Peiper: sono le SS appartenenti alla divisione corazzata Leibstandarte Adolf Hitler, nata dall’espansione della guardia del corpo Fuhrer. I più nazisti dei nazisti, irriducibili e feroci.

Peiper vuole parlare con il commissario prefettizio, ma  questi è sparito e allora convoca il parroco Don Giuseppe Bernardi e un industriale della zona, l’ingegnere Antonio Vassallo. Li incarica di andare dai partigiani e farsi restituire i due soldati prigionieri, l’auto e anche il cadavere del caduto. Solo così si potrà evitare la rappresaglia nei confronti del paese. I due chiedono un impegno scritto, ma il maggiore SS replica sprezzante che la parola d’onore di un ufficiale tedesco vale più  degli scritti di tutti gli italiani.

Il parroco e l’ingegnere non possono fare altro che chinare il capo e rispondere “va bene”. Alle 14 partono e assolvono la loro missione: i due soldati, cui non è stato torto un capello, vengono riconsegnati e così l’auto e la salma del tedesco morto. Alle 15 e 15 circa sono di nuovo a Boves. I cittadini tirano un sospiro di sollievo: è finita! Ma non è così. Parte la rappresaglia: piccoli gruppi di SS percorrono la città bruciando e uccidendo. Per fortuna molti uomini sono già fuggiti. Chi in montagna con i partigiani, chi si è nascosto nella valli impervie, chi già da tempo, spinto dalla povertà, era andato a lavorare a valle. Boves, in quel momento, è una cittadina di vecchi, donne, bambini e malati. Non sono potuti scappare e muoiono tutti. Alla fine le vittime saranno 25, compreso il viceparroco Antonio Ghibaudo, ucciso mentre sta dando l’assoluzione ad un anziano morente. Don Bernardi e Vassallo addirittura, vengono portati in giro per le strade e costretti ad assistere alla distruzione del paese. E poi bruciati vivi. Anche se ad onor di verità qui le versioni divergono. C’è chi dice che prima siano stati ammazzati a colpi di mitra e poi bruciati.  Fatto sta che i loro cadaveri saranno ritrovati carbonizzati.  Intanto Peiper bombarda con l’artiglieria le posizioni partigiane.

Nonostante ciò le bande rimarranno attive in zona e nelle altre valli del Cuneese fino alla fine della guerra. Tanto che Boves tra il 31 dicembre 1943 ed il 3 gennaio 1944 subirà una seconda ondata di violenze: in questo caso l’esercito tedesco mette in atto alcuni rastrellamenti nelle montagne, piene di cascine abbandonate e di nascondigli naturali, per coprire la propria ritirata ed evitare gli attacchi dei partigiani. Il paese, soprattutto nelle frazioni montane, verrà di nuovo dato alle fiamme: 59 i morti tra civili e partigiani.

Alla fine del rastrellamento, il 3 gennaio, incendiando tutto ciò che era possibile bruciare: casotti, case, fienili, pagliai, fascine, legna, foglie. Uccidono persino  tutte le mucche e tutto il bestiame dei contadini. Fanno terra bruciata nelle frazioni di Rivoira, Castellar, Rosbella, parte di Madonna dei Boschi e S. Giacomo a valle della Chiesa.

Dopo la guerra due avvocati italiani  tentarono di portare in giudizio a Stoccarda gli autori della strage, a cominciare da Peiper, ma il processo non fu mai celebrato. L’ufficiale venne condannato a morte per la strage di un’ottantina di prigionieri americani in Belgio, durante l’offensiva delle Ardenne di fine 1944. La sentenza fu poi commutata nel carcere a vita ma Peiper fu rilasciato nel 1956. Morì nel 1976 in un incendio scoppiato nella sua casa francese di Travers, in Borgogna, dove viveva sotto falso nome. Secondo alcune ricostruzioni, il rogo sarebbe stato doloso, appiccato da ex partigiani francesi comunisti che avevano scoperto la vera sua vera identità.

Per il suo martirio Boves sarà insignita prima della medaglia d’oro al valor civile, nel 1961 e poi, nel 1963, della medaglia d’oro al valor militare.

Città di Boves, targa alla memoria.

Adesso alcune considerazioni, che a distanza di 77 anni possono essere laicamente fatte. Che i tedeschi fossero imbestialisti contro gli italiani è comprensibile: fino a pochi giorni prima erano nostri alleati. La frase di Peiper: la parola d’onore di un tedesco val più di quella di tutti gli italiani, lo dimostra. La pronuncia 10 giorni dopo il  voltafaccia di Vittorio Emanuele e Badoglio. Quello che non si può giustificare, nemmeno con il massimo del negazionismo, è la sproporzione tra il fatto oggettivo – le due SS vengono “resituite”  ed anche il cadavere del tedesco caduto – e la reazione  dei nazisti.

Il nodo è questo. Ed è un nodo che ci riporta tragicamente ai nostri giorni.

E’ facile, essendo armati fino ai denti, uccidere donne, bambini,anziani disarmati e inermi. La coscienza della tua forza può portarti a sviluppare quell’istinto del branco (e qui vorrei aprire una parentesi, perché branco è riferito agli animali, ma gli animali uccidono solo per fame o per difesa, non conoscono l’odio) in base al quale pensi che tutto ti sia permesso. A Boves, come in altre efferate stragi naziste, si era in guerra.

Ma ora non lo siamo, eppure assistiamo a episodi come quello di Colleferro . “Armati” della consuetudine alle arti marziali (male utilizzate, perché l’arte marziale insegna eticamente tutt’altro), protetti dal “branco” (erano in 4) si può uccidere di botte un ragazzo, solo e mingherlino.

“ancora non è contenta di sangue la bestia umana.
Io chiedo quando sarà
Che l’uomo potrà imparare
A vivere senza ammazzare
E il vento si poserà”

Lo cantava Francesco Guccini nel 1966

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Stefania Conti

Giornalista. Nata a Roma e laureata in sociologia, ha lavorato presso (in ordine cronologico): Adnkronos, Il Messaggero, Tg2.

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