La Finestra sul Cortile

Coronavirus: lodi e anatemi sull’Italia

La regola della marineria è che, in particolare in tempesta, guida il comandante.

La necessità di fare catena, in una filiera di comando non divorata da liti furibonde e polemiche arretrate, permette di solito di aggiustare e adattare le scelte con realismo.  Che significa anche l’utilità di un mutuo possibile ascolto interno.

La filiera di comando di un sistema poco verticale come quello italiano, in generale, introduce invece molte varianti. Così che il “dibattito pubblico” – ovvero la rappresentazione generale, con tutti i soggetti, convergenti o conflittuali, in campo – presenta, nel mese di scatenamento della crisi coronavirus, un bel po’ di varianti alla regola della marineria. Ma ha anche presentato alla fine una coesione percettiva e di comportamenti a cui hanno aderito in buona  parte sia i protagonisti del dibattito che i cittadini. Il rapporto tra regola della marineria e regola dell’individualismo nostrano è più o meno di 7 a 3, stando alla demoscopia corrente.

Diciamo che questo è un passo avanti rispetto alle abitudini e un passo avanti, qui la verità è necessaria, rispetto ai primi quindici di giorni di crisi in cui tra la soluzione “zona rossa” diffusa e le “soluzioni flessibili il conflitto decisionale ha probabilmente lasciato scatenare i casi più drammatici, come Bergamo e Brescia, con contraccolpo pesante su tutto il sistema sanitario regionale.

Si è poi evitato di radicalizzare il conflitto salute/economia. Ovvio che si ponesse. Ovvio che avesse diritto di rappresentazione. Ovvio che esistevano ed esistono le due crisi affiancate.

Qui una certa intelligenza di sistema, che pure ha scelto la priorità “salute”, ha tuttavia evitato di delegittimare l’inventario di una crescente paura collettiva: la caporetto economica e la scure occupazionale. Una situation room ha cercato di far funzionare la macchina (clinica e infrastrutturale) della sanità (non tutto bene, si sa). Un’altra ha lavorato – tra territori ed Europa (anche qui con grandi punti di domanda) – per non rimandare a “babbo morto” (espressione non virtuale) l’esame delle urgenze.

Sia chiaro: non si sta lodando senza ombre il “modello italiano”.

Non si sta omettendo il pensiero che dentro le due settimane di conflitti e confusione, non ci stia una parte importante di quell’eccesso di morti che il caso italiano presenta oggi, un mese dopo, 12.428 sui 51.149 del pianeta, cioè un quarto dei decessi del mondo intero. Lo spiazzamento del sistema ha trovato a un certo punto una strada. E l’esperienza che l’Italia ha maturato è anche servita a tanti altri paesi che hanno fatto di peggio nella prima parte di marzo: sottovalutando, ironizzando, sprezzando, non prendendo sul serio il carattere glocal, mobilissimo, mercuriale di questo maledetto virus. “Fare come in Italia”, ad un certo punto, è diventata una parola d’ordine piuttosto diffusa.

E’ in questa cornice che si colloca – tra tante cose che si debbono di valutare – anche il bilancio reputazionale del nostro paese, che ciascuno poi declina nei propri territori e che tutti decliniamo anche come bilancio europeo. Non sembrava opportuno anticipare troppo questa partita. Il tempo giusto per questa sintesi deve ancora maturare. Ma è in questa cornice (se non si vuole fare censura circa opinioni di ricerca circolanti) che si collocano, al di là di lodi e anatemi “umorali” che ci hanno riguardato, due episodi recenti diversi e per varie ragioni agli opposti.

  • Uno è la decisione del presidente dell’Albania – paese confinante ma pressoché ignoto agli italiani anche se fu parte del Regno d’Italia a un certo punto del drammatico ‘900 – di mandare 30 medici e infermieri, tolti al loro fronte di contrasto, per la memoria di solidarietà che l’Italia (paese di migranti) ha espresso nella storia recente verso l’Albania (paese di migranti). Un discorso commovente, che mette all’ordine del giorno il ripensamento della parola “patria” nel quadro dei processi di ibridazione di questa età delle migrazioni.
  • L’altro è lo studio che – agli antipodi della geo-economia del mondo, rispetto all’Albania – la Harvard Business Review, per mano di studiosi di origine italiana (talvolta all’estero presi da foga fustigatoria) che il 27 marzo hanno dedicato 17 mila caratteri a stampa) per segnalare ai decisori americani e in generale del mondo anglosassone, “di non ripetere gli errori commessi dagli italiani”, “di imparare dagli errori dell’Italia”, “di capire le spiegazioni del nostro fallimento”, eccetera.

Quali colpe? Incomprensione immediata della portata della crisi. Visceralità delle reazioni dei politici e scarso ascolto immediato di competenza. Parzialità dei provvedimenti prima di giungere a decisioni complessive. Seguire e non prevenire la diffusione del virus.  Politica differenziata dei test tra i territori. Inadeguatezza strutturale del sistema ospedaliero rispetto alle pandemie. Insufficienza di dati micro e macro. Il riferimento al testo permette a chi legge di sincerarsi delle argomentazioni.

Francamente non abbiamo scienza per misurare tutti questi rilievi, pur avendo personali critiche verso questo testo.  Ma nel contesto universitario in cui chi scrive agisce, con un Osservatorio su questa crisi ben attivato, ciò deve essere sottoposto a giudizio. Ne stiamo raccogliendo di autorevoli: indignati, delusi, parzialmente inclini. Con calma e nelle forme adeguate, ne daremo conto.

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Stefano Rolando

Stefano Rolando è nato a Milano nel 1948, dove si è laureato in Scienze Politiche e specializzato alla Scuola di direzione aziendale della Bocconi. Tra vita e lavoro si è da sempre articolato tra Milano e Roma. E' professore universitario, di ruolo dal 2001 all’Università IULM di Milano dopo essere stato dirigente alla Rai e all'Olivetti; direttore generale dell'Istituto Luce, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Consiglio Regionale della Lombardia. Insegna Comunicazione pubblica e politica e Public Branding. Ha scritto molti libri sia su media e comunicazione che di storia, politica e questioni identitarie. Da giovanissimo è stato segretario dei giovani repubblicani a Milano, poi ha partecipato al nuovo corso socialista tra anni settanta e ottanta. Poi a lungo non appartenente. Più di recente ha lavorato sul civismo progressista (Milano e Lombardia) e su un progetto politico post-azionista in relazione al quale è parte della direzione nazionale di Più Europa.

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