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Cosa ne sarà di noi… giovani

Lettera a Moondo di un giovane in quarantena.

Gli esperti e la storia, passata e recente, ci dicono che una pandemia non era cosa così imprevedibile. Abbiamo diversi studi e simulazioni a riguardo.
Avremmo dovuto attrezzarci? Prevenire, magari mettendo nei magazzini della Protezione Civile ospedali da campo e attrezzature emergenziali? Forse sì. Non sono però qui, come si dice nel mondo della Formula1, a fare l’ingegnere del Lunedì. Voglio solamente buttare su tastiera ciò che passa per la mente di un 23enne durante le giornate del periodo più particolare della sua vita.

Per quanto ne possano dire gli esperti, noi questa non ce l’aspettavamo proprio.
Inimmaginabile pensare di essere costretti dentro le nostre case e poter uscire solo per fare la spesa, con tanto di guanti, mascherina e autocertificazione. Inimmaginabile pensare di non poter andare a riempire qualche via del centro con i nostri amici.
Mai avremmo pensato che, da un giorno all’altro, non si sarebbe più potuto stringere mani, dare un abbraccio o un bacio ai nostri cari. Ed era inimmaginabile pensare di acquisire la consapevolezza di non potersi vedere per molto tempo con i propri nonni. Noi che con loro cresciamo e che da loro tanto impariamo.

Stiamo a casa, dobbiamo stare a casa, ce lo ripetiamo e ce ne convinciamo giorno dopo giorno, giorni in cui mettiamo da parte le nostre abitudini, le nostre relazioni, le nostre libertà.

Le giornate diventano lunghe e per quanto le si possa in qualche modo provare a riempire, di spazio ne rimane. Quando non c’è da fare, c’è da pensare. Allora pensiamo, pensiamo molto e ci poniamo tante domande.

Pensiamo a come ci viene descritta questa vicenda. La scelta di un linguaggio bellico non è fuorviante? Siamo di fronte alla realtà o ad una distorsione di essa? Vi è poi un giusto bilanciamento tra restrizione di libertà individuali e tutela della salute pubblica? Tutela quasi completamente affidata a tecnici. Questi non dovrebbero affiancare l’azione politica, anzichè sostituirla? Non perdiamo così quella capacità di immaginare il domani ritrovandoci, anzi, a rincorrere il contingente?

Ci si chiede poi cosa ne sarà dell’Unione Europea. Si è resa evidente la necessità di avere una sua configurazione con più poteri reali ed economie maggiormente integrate. Questa via di mezzo, tra Confederazione e Stato Federale, non funziona così bene; con l’aria che tira, quanto è distante la possibilità di vedere realizzato il sogno europeo di Spinelli e colleghi?

Per quanto riguarda la riapertura, invece, era evidente che, una volta abbassata la curva dei contagi e potenziate le strutture sanitarie, avremmo dovuto convivere con il virus. Si è iniziato a cercare di capire come, solo dopo 40 giorni di lockdown. Non staremo rischiando di non avere un piano efficace per tempo? Siamo indisciplinati da disciplinare in fretta e ogni giorno che passa perdiamo miliardi di euro.

Questi alcuni dei pensieri che si alternano durante lunghe e vuote giornate di quarantena. Ce n’è uno però che è un qualcosa di più: una preoccupazione. Preoccupazione che, purtroppo, non si alterna al resto; è costante e potrà forse risultare scontata, ma sembra non la si voglia mai affrontare veramente. Meglio parlarne e poi scordarsene.

Che cosa ci si sta sta consegnando?

È forse ora di fare un salto di paradigma e smettere di spendere ciò che non si ha perchè tanto, il debito, lo pagheranno le generazioni a venire? 
Purtroppo, in Italia, troppo spesso non si ha avuto particolare attenzione nella gestione della spesa pubblica. Il motivo è molto semplice, ed è politico. Abbiamo basato campagne elettorali e salvato governi con il potente strumento del deficit. Spendere, unicamente per generare consenso, ciò che non si può spendere.
Intendiamoci, non è questa una critica al deficit in se stesso, ma alla scelleratezza nel farne uso di buona parte della politica italiana.
Dove non c’è scelleratezza c’è investimento. Spesa pubblica per investimenti è cosa sacrosanta nella costruzione di un Paese forte.
Dove c’è scelleratezza, invece, c’è poca cura del conto pubblico.
In Italia, le politiche economiche prima e le sole politiche fiscali dopo il ’99, sono state spesso sfruttate per il consenso anzichè per la politica di visione, intesa come immaginare e costruire il domani.

Le politiche del consenso vanno verso chi deve votarti; ci vuole troppa lungimiranza per votare un investimento o un taglio, non indiscriminato chiaramente, inteso bensì come razionalizzazione. La maggioranza delle persone non vuole sacrificare niente di proprio, anzi vota ciò da cui trova immediato beneficio, una buona pensione o magari  uno strumento fortemente assistenzialista.
Ecco perchè alla politica di visione sono sempre mancate le schede elettorali. Si vuole tutto e subito anzichè meno oggi per tanto domani.

Tornando alla nostra crisi, quella da COVID19, ci troviamo ad un passaggio cruciale. Il Paese è fermo, chiuso dentro casa e lo Stato deve salvare le imprese, la gente. L’unica via è fare debito, Draghi è stato chiaro, ed era scontato. Lo facciamo e va bene, non possiamo mandare a carte quarantotto la Nazione, ma come lo facciamo?  E soprattutto, come lo restituiamo?
Consapevoli dell’entità del nostro debito pubblico, continuiamo a mettere acqua in un contenitore già stracolmo. Dobbiamo capire come iniziare a svuotarlo, ma da adesso e non, come sempre si è fatto, lasciando l’onere a chi verrà dopo.

Come stiamo vedendo in questi giorni, neanche durante un’emergenza troviamo stabilità di governo. Continui attacchi da tutti i fronti ed una disponibilità dell’esecutivo ad accontentare le varie richieste per non cedere il posto. Questo nuovo debito lo investiamo o facciamo mero assistenzialismo per tenere tutti a galla?

Con una situazione politica instabile è difficile fare investimento ed è difficile fare importanti revisioni di spesa. Non ti voterebbe più nessuno. Non possiamo legare le sorti delle generazioni future alla voglia di rimanere in sella al governo.

Il coronavirus, statistiche alla mano, colpisce più incisivamente le fasce d’età più alte. Quelle fasce d’età che mai hanno votato un investimento o una razionalizzazione, sempre hanno preferito un po’ di assistenzialismo o una bella pensione anticipata. Tanto paga lo Stato e di rimando le generazioni a venire: noi giovani.

Accettiamo il sacrificio, chiudiamo e ci indebitiamo per salvare tutti, ci mancherebbe, ma che tutti si mettano una mano sulla coscienza e accettino razionalizzazioni ed investimenti relativi ad un piano per la ripartenza. Tradotto e semplificato: anni duri.
Accettarlo non è semplice ed il rischio è che al primo scellerato che si alzerà in piedi promettendo paradisi insostenibili, tutti lo acclameranno e lo pretenderanno a palazzo. Un rischio troppo grande.

La politica in Italia è instabile. Lo è per problemi di configurazione e cultura. Basti pensare alla durata media dei governi, 1.1 anni, con legislature da Costituzione di 5 anni. È chiaro che qualcosa non funziona.

Noi giovani siamo pienamente consapevoli dei sacrifici che occorrono ma abbiamo bisogno di garanzie per ripartire e devono principalmente riguardare il come si affronterà la questione debito. Queste garanzie dalla attuale politica italiana non possono arrivare. Basti pensare al MES, strumento oggi completamente rivoluzionato per l’emergenza, ed un dibattito politico finito su chi lo abbia firmato tra 2011 o 2012. No, non ci fidiamo minimamente.

La garanzia che chiediamo è un piano di rientro fatto alla perfezione e messo in condizione di essere perseguito. L’unico modo è metterlo in mano a chi non deve rispondere ad elettorato. Un Governo tecnico, di questo stiamo parlando. Ma non un governo come quello Monti, durato due anni e mezzo e massacrato per revisioni di spesa avvertite come tagli troppo pesanti.

Abbiamo bisogno di un governo tecnico con una garanzia di durata utile ad instradare il Paese verso uno sfoltimento del debito, che faccia investimenti e che razionalizzi senza avere paura che qualcuno possa alzare la voce da un momento all’altro. Deve rassicurarci sul fatto che mai ci troveremo a dover scegliere di andarcene da questo Paese straordinario.

Si inizia a parlare di patrimoniale, prelievi per fasce di reddito, aumento dell’IVA. Sono strumenti che oltre a mandare per aria famiglie ed imprese e a far fuoriuscire capitali, recuperano una piccolissima parte del debito. Altri dicono monetizzazione, ma forse si sono dimenticati dell’Argentina.
Non abbiamo bisogno di questo. Serve un efficace piano pluriennale di abbattimento del debito con tutto ciò che ne consegue e con tutte le garanzie che venga perseguito senza diventare vittima sacrificale della scelleratezza politica. Per noi e per la fiducia dei finanziatori.

Si è consapevoli della difficoltà di tutto ciò, ci stiamo però ripetendo da giorni che siamo un grande Paese. Forse è il caso di cominciare ad esserlo nei fatti oltre che nelle parole.
E non mi si venga a dire “Vabbè ma tanto, bene o male, si è sempre andati avanti così e non è morto nessuno”, bisogna essere ciechi per non vedere in che situazione versa l’Italia, con o senza coronavirus.

Noi giovani abbiamo pensato e stiamo pensando a voi. Voi, per la prima volta, penserete a noi?

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Giovanni Trani

Nato a Roma nel 1997. Studente di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso l'Università degli Studi della Tuscia. Si occupa di organizzazione di eventi e associazionismo universitario.

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