In Italia la politica si occupa di tutto, si intrufola in ogni ambito. Si può dire che qualunque attività diventa “pubblica”.
Questo anche per responsabilità dei privati che accettano -anzi ricercano- agevolazioni e finanziamenti pubblici.
In questo modo la politica occupa ogni spazio di comando e lo fa attraverso uno strumento onnivoro e onnipresente che si chiama partito.
A che cosa servono i partiti? Solo a legittimare il potere assoluto dei loro segretari e/o presidenti.
Dovrebbero rappresentare l’esatto contrario: un luogo di decisioni collettive, con forme certe di democrazia interna che rendano quelle cariche contendibili in modo trasparente.
Un tempo il partito era un corpo sociale composto da militanti o più modestamente simpatizzanti con sezioni, commissioni di studio, segreterie (cittadine, provinciali e regionali) chiamate a contribuire alla elaborazione di una linea politica, nazionale o locale.
Ora sono contenitori vuoti, organismi pletorici governati da capetti dotati di eserciti personali in sonno (gli iscritti), in attesa di schierarli per congressi, primarie, campagne elettorali.
Si finge che siano formazioni “volontarie”, no profit, rette dall’entusiasmo per il bene comune, quando sono nei fatti degli enti a scopo di lucro. Basterebbe ripercorrere le mille giravolte sul loro finanziamento (pubblico e privato).
Sono un sistema di potere diffuso. È infatti la vasta geografia di sindaci, presidenti di regioni, amministratori di enti economici che decide i futuri candidati al parlamento e gli eventuali ministri. Molto più degli organismi decisionali a ciò preposti.
Ci eravamo dimenticati della loro esistenza finché i Cinquestelle ci hanno ricordato quanto siano importanti e concupiti.
Proprio loro che erano nati per combattere l’establishment, che si definivano “movimento” per far capire di non aver niente a che fare con le sclerotiche organizzazioni politiche nazionali.
L’autoproclamato avvocato del popolo ha dedicato tutta la sua scienza per prevenire in statuto ogni possibile arzigogolo e sottigliezza che possa minacciare la sua prossima presidenza.
Come se fossero i cavilli l’arma segreta del suo avversario, lo “stregone” Grillo che usa il carisma come un bazooka.
Eppure i Pentastellati erano gli unici che si fossero posti il problema della “rappresentanza” in un mondo digitale.
Purtroppo la democrazia “diretta” è una strada complicata (per me anche sbagliata): innanzi tutto c’è il problema di chi gestisce i dati.
In una situazione virtuale è l’unico che sa la verità (e che può modificarla).
Curioso, quindi, che l’incarico sia stato assegnato ad una società terza e privata.
Poi il criterio con cui coinvolgi i votanti: su cosa li interpelli e come formuli le domande.
In questi anni abbiamo visto solo consultazioni confermative: sei d’accordo su quanto abbiamo già deciso?
Il consultato è solo nelle condizioni di sfiduciare decisioni di fatto già prese e si farà scrupolo di non mettere in imbarazzo il gruppo dirigente e, conseguentemente, l’immagine del movimento.
Forse il dialogo dovrebbe essere più interattivo, più preventivo. Ad esempio sottoporre al gradimento differenti gruppi dirigenti in ballottaggio tra loro, chiedere quali priorità politiche adottare, sondare gli umori degli elettori sui comportamenti dei propri dirigenti e sulle idee dei propri avversari.
Bisogna evitare (come è successo) che le massime istituzioni del Paese (parlamento, presidenza della repubblica) che hanno lavorato su precise ipotesi politiche, avallate dalla dirigenza 5Stelle, debbano poi aspettare il parere di qualche migliaio di persone che di fatto si trovano ad esercitare un diritto di veto che espropria gli altri sessanta milioni di italiani.
I leader, finché non perdono le elezioni, sono padroni assoluti dei loro partiti.
La decisione storica di partecipare o meno ad un governo di unità nazionale nel caso della Lega è stata presa, almeno apparentemente, in un bar dove Salvini ha ascoltato per pochi minuti i pareri opposti di due suoi dirigenti.
Della Meloni non risulta nemmeno quello.
Il Partito Democratico che è erede di una tradizione partecipativa, in teoria e in astratto delega le proprie scelte ad una assemblea di un migliaio di persone che dovrebbero decidere in presenza e che sono di fatto inconvocabili.
Quando recentemente il loro segretario si è dimesso “schifato”, i capi corrente invece di riunire non l’assemblea ma il congresso, hanno chiamano da Parigi -si immagina nella speranza di continuare a comandare loro- un autoesiliato, lontano dalla vita politica da sette anni.
Tutti ci appelliamo continuamente alla costituzione ma sarà un caso che gli articoli più vistosamente trascurati, tra quelli previsti e mai normati, riguardino la vita e le regole dei partiti e dei sindacati?
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