Com’era facilmente prevedibile, il ciclone Draghi ha generato un vero e proprio cataclisma nel panorama politico italiano. Un forte choc “esogeno” che ha generato effetti “asimmetrici”, mutuando i termini dalla teoria economica. La Destra ne esce vittoriosa e rigenerata (nel significato letterale del termine), mentre la Sinistra prova a ricostruirsi dalle macerie. Anche un simile effetto asimmetrico era facilmente prevedibile, data la genesi della crisi di governo e l’arrivo dell’ex governatore della BCE a Palazzo Chigi (cfr Un’analisi geopolitica della crisi di governo).
Le avvisaglie di una forte tempesta in arrivo da Washington, d’altronde, si erano manifestate chiaramente, seppur non registrate dalle disattente antenne del mainstream nazionale. Il whatever it takes sul debito pubblico di Draghi dalle colonne del Financial Times a marzo dello scorso anno (cfr Draghi e il bazooka americano per riprendersi l’Europa) e il blitz della famiglia Agnelli su Repubblica, poche settimane dopo (cfr Il riallineamento di Repubblica nell’Italia storicamente contesa), le più recenti. Più indietro nel tempo, la caduta del governo giallo-verde, per l’uscita della Lega dall’esecutivo più filo-cinese della storia nazionale, la più eclatante e rivelatrice.
L’epilogo non si è fatto attendere, con un redde rationem nelle tre maggiori forze politiche di proporzioni tali da ricordare quello generato da Mani Pulite trent’anni fa.
Nel M5S è arrivata la “Notte dei lunghi coltelli”. Tuttavia, se le SS erano ancora più imbevute di fanatismo nazista rispetto alle SA, gli epuratori del movimento, guidati dal fondatore, imputano agli epurati di non averli seguiti nella loro improvvisa, quanto disinvolta, virata di 180 gradi. Per intenderci, come se le famigerate brigate di Himmler avessero agito, perché diventate di colpo marxiste! Il Fatto Quotidiano, House Organ del movimento, totalmente spiazzato dagli eventi, oltre che incapace di prevederli, ha giustamente denunciato: “I rinnegati stanno cacciando i veri Grillini!”.
Negli stessi giorni, dall’altra parte dello schieramento, anche la Lega virava di 180 gradi con altrettanta rapidità e disinvoltura e conseguente smottamento interno, tuttavia generatore, in questo caso, di effetti benefici sul partito.
Quanto al PD, complice la grancassa mediatica tutta intenta a dipingerlo come l’asse portante della nuova maggioranza allargata (maggioranza Von Der Leyen), ingannata probabilmente dallo slogan “governo del Presidente della Repubblica” (proveniente dalle fila democratiche), i più hanno creduto a un passaggio indolore. Eppure, già dai primi giorni, la scelta tutta maschile dei ministri per accontentare le correnti e una maldestra comparsata televisiva del segretario, davano luogo a polemiche e dolori di pancia rivelatori di una situazione interna tutt’altro che serena. Una pentola a pressione, se lasciata a lungo coperta, senza dar sfogo ai vapori, esplode. Così è stato con le dimissioni del segretario, oltretutto accompagnate da un’inaudita gravità delle motivazioni addotte: “Mi vergogno di un partito che pensa solo alle poltrone!”. Un fulmine a ciel sereno, ma solo per gli analisti meno attenti.
Tre eventi di rilevanza storica per il sistema politico italiano, che probabilmente hanno sancito la fine della cosiddetta Seconda Repubblica. Eppure, sebbene registrati e descritti superficialmente fino alla noia dal mainstream nazionale, continuano a non essere analizzati nel giusto contesto che li determina, quello geopolitico. Il nodo dell’analisi è sempre lo stesso (cfr Un’analisi geopolitica della crisi di governo): nella condizione di oggetto geopolitico in cui ci troviamo da ormai tre decenni, i principali accadimenti politici interni, non possono essere capiti senza far ricorso all’analisi della contesa strategica internazionale.
La Lega di Bossi e Miglio nacque e crebbe rapidamente nei consensi proprio in coincidenza del grande effetto destabilizzante generato in Europa dalla riunificazione tedesca, contestuale e conseguente all’implosione del blocco sovietico. La Germania poteva riprendere a perseguire la sua strategia di espansione a Est, dalla Polonia ai Balcani, ma stavolta a braccetto e non in contrasto con gli Stati Uniti. E data la nuova condizione di grande debolezza in cui versava l’Italia dopo il “golpe” di Mani Pulite – quando rischiò seriamente l’integrità territoriale – anche l’ipotesi di un’espansione a Sud oltre le Alpi non sembrava affatto peregrina. In tale ambito, la Lega ebbe la stessa genesi dei partiti nazionalisti che smembrarono la Jugoslavia e la Cecoslovacchia, creando piccoli stati-satellite della nuova Germania. In Italia però, anche per l’interposizione congiunta degli USA e del Vaticano – contrariamente a come agirono nell’ex Jugoslavia – qualsiasi “disegno asburgico” dei tedeschi nel Settentrione divenne impraticabile. La Lega, tuttavia, ha continuato a essere il partito di riferimento della manifattura settentrionale, quindi, in ultima analisi, a tutelare gli interessi dell’industria tedesca e della sua catena del valore, presso il governo centrale di Roma.
Ciò fin quando è cambiata la tattica geopolitica americana in Europa. Da presidio ininterrotto dal ’45 in funzione stabilizzatrice, la nuova politica estera del disimpegno destabilizzante, inaugurata dall’amministrazione Obama, fece deflagrare le “primavere arabe” nella sponda nordafricana e mediorientale del Mediterraneo e i movimenti nazionalisti e populisti nella sua sponda settentrionale e nell’Est Europa. Due mine ad alto potenziale per la costruzione di un’Unione Europea liberista, funzionale alla crescente egemonia tedesca sul continente.
Pochi mesi dopo l’avvio del secondo mandato di Obama, in Italia si registrava la prima disinvolta virata di 180 gradi della Lega – con Salvini neosegretario e Giorgetti sempre più anima economica e mente politica del partito – da secessionista, liberista e filo-tedesca a nazionalista, keynesiana e anti-tedesca.
Rispose a quello stesso scopo destabilizzante della costruzione europea germano-centrica, perseguito dagli apparati dello Stato profondo americano, anche la nascita e repentina crescita del M5S.
Nell’inverno del 2013, in piena ascesa del movimento, il già autorevole Maurizio Molinari, allora corrispondente da New York e, in seguito, direttore del più atlantista tra i quotidiani italiani, La Stampa della famiglia Agnelli, si spingeva a indagare una possibile genesi estera dello strano fenomeno del “grillismo”. L’attuale direttore di Repubblica – nel frattempo acquistata dalla stessa famiglia, cfr Il riallineamento di Repubblica nell’Italia storicamente contesa – raccontava di esser venuto in possesso di un telegramma inviato, ad aprile del 2008, dall’ambasciatore americano al Segretario di Stato (amministrazione Bush), dal titolo, Pranzo con l’attivista italiano Beppe Grillo: nessuna speranza per l’Italia. L’ossessione per la corruzione. Quando ancora il comico genovese lanciava le sue invettive contro l’establishment italiano ed europeo dai suoi spettacoli e dal suo blog, ben un anno e mezzo prima della fondazione del movimento politico, Ronald Spogli lo invitava a pranzo e riferiva con toni entusiastici a Condoleezza Rice i contenuti dell’incontro con l’”attivista”. L’accento era posto sui temi più cari al comico: lotta senza quartiere alla corruzione endemica, difesa degli oppressi, tutela dell’ambiente. Snodo cruciale del telegramma era quando l’ambasciatore rilevava le grandi capacità del comico a “galvanizzare una parte dell’opinione pubblica in genere silenziosa, convogliando la rabbia degli italiani verso la corruzione governativa più radicata e l’incapacità delle élite di migliorare le condizioni del paese” e che in questo modo riuscisse “a portare nelle piazze centinaia di migliaia di persone per protestare contro l’ordine costituito”.
Quasi cinque anni più tardi, dicembre del 2012, sempre il quotidiano La Stampa, riferiva di un incontro riservato tra Casaleggio e Michael Slaby, guru informatico di Obama (ideatore dell’App Obama for America) e maggior artefice della campagna elettorale che lo portò al Campidoglio. Gianni Riotta, editorialista dello stesso quotidiano e moderatore nei giorni successivi di un dibattito a Montecitorio, al quale lo stesso Slaby era invitato, gli domandò provocatoriamente: “Tutta l’Italia ormai se lo chiede, allora Obama sostiene Beppe Grillo?” La risposta si limitò a un sorriso. Nelle elezioni politiche della primavera successiva, il movimento sarebbe diventato primo partito alla Camera.
E’ verosimile l’ipotesi di un filo rosso che unisca Mani Pulite al M5S? A vent’anni di distanza, un nuovo profondo ricambio della classe politica italiana, sollecitato da Washington, realizzato con personalità di grande impatto mediatico – Di Pietro nel primo caso, Grillo nel secondo – e soprattutto facendo leva su un male atavico ed endemico della società e della classe dirigente italiana: la corruzione. È la tesi avanzata da uno degli uomini più influenti della Prima Repubblica, Luigi Bisignani, nel suo libro intervista, L’uomo che sussurra ai potenti.
Non c’è dato sapere fin quando Oltreoceano il segreto di Stato non verrà levato su documenti ufficiali che riguardano snodi politici cruciali del nostro paese degli ultimi decenni. Al momento però sappiamo che proprio la nuova Lega nazionalista e il M5S populista, entrambi acerrimi avversari del progetto europeo germano-centrico, diventavano le due maggiori forze politiche italiane nel corso del decennio scorso e arrivavano infine a guidare il governo nel 2018. Grande lo choc in Europa nel costatare che uno dei paesi fondatori e pilastro imprescindibile del progetto fosse in mano ai “nemici”. Tanta la paura a Berlino nel vedere sotto ricatto la catena del valore della propria industria, motore dell’egemonia economia sul continente.
Tuttavia l’asse tra i nazionalisti e i populisti italiani si è rotto presto, non per pressioni europee, come si potrebbe pensare, ma per un nuovo intervento di Washington, che ne era stato probabilmente l’artefice. Troppo importante l’impronta del Vaticano sull’esecutivo giallo-verde, che era riuscito a portare i pentastellati su posizioni filo-cinesi talmente sfacciate, che neanche il Partito Democratico più prodiano aveva mai osato. La goccia che ha fatto traboccare il vaso non è stata l’accordo sulla Via della seta – il velleitario progetto cinese di aggirare l’incontrastato dominio americano sui mari – né, tantomeno, il posizionamento chavista sul Venezuela, più folkloristico che altro, agli occhi di Washington. Intollerabile è stata l’intesa sul 5G con Huawei, che andava a toccare pericolosamente un settore geopoliticamente strategico, come quello delle telecomunicazioni. Non si scherza con la custodia d’informazioni di un paese NATO al centro del Mediterraneo che ospita delicate infrastrutture militari. Gli americani avevano “suggerito” lo strumento della Golden Power, che Giorgetti – sottosegretario alla Presidenza – aveva inserito nel decreto legge di marzo, per permettere al Consiglio dei Ministri, anche con l’istituzione di un apposito comitato di controllo, di bloccare l’ingresso di una società straniera in un settore d’interesse nazionale. Tuttavia un ulteriore decreto legge d’inizio luglio, voluto dal Carroccio, che rafforzava i poteri d’interdizione del comitato e la protezione delle reti di comunicazione, veniva cassato dai pentastellati, che gli negavano la conversione in legge nei due mesi canonici, con la scusa della pausa estiva. L’ambasciatore americano, Lewis Eisenberg, piombava nell’ufficio di Giorgetti, per chiedere spiegazioni sull’accaduto e con toni, parrebbe, tutt’altro che concilianti. In pieno agosto la Lega usciva dal governo nei modi del tutto inconsueti che tutti ricordiamo.
E arriviamo all’attualità degli ultimi eventi.
Una pandemia non cambia le tendenze geopolitiche in corso, al contrario, le accelera.
Il Deep State statunitense, che definisce la traiettoria della politica estera sulla base del prioritario obiettivo strategico dell’impero americano – il dominio dell’Europa – non può tollerare oltre la crescita in potenza della Germania e la sua conseguente egemonizzazione del Vecchio Continente; tantomeno le convergenze geopolitiche di Berlino con Pechino che danno luogo a incursioni sempre più audaci della Cina in Europa. Pianifica dunque l’abbandono della tattica del moderato disimpegno e spinge per l’elezione alla Casa Bianca del più realista e organico Biden. È impellente per gli americani la necessità di serrare i ranghi e chiudere ogni “falla” nelle retrovie europee per stringere la morsa soffocante attorno al Dragone, per cui già varie settimane prima dell’effettivo insediamento del neopresidente, suona la campanella di fine ricreazione per il Vecchio Continente.
La Penisola è il perno centrale delle operazioni in Europa.
Renzi – presumibilmente con la complicità di Giorgetti e la benevola supervisione della presidenza della Repubblica – muove per affondare il secondo governo Conte (da lui stesso ispirato) non appena appare chiara a metà novembre la vittoria del democratico alle elezioni d’Oltreoceano (cfr Un’analisi geopolitica della crisi di governo).
Draghi torna a essere il fulcro della tattica americana di messa in sicurezza del continente europeo, realizzata attraverso la transizione dall’Eurozona monetarista di Maastricht, strumento egemonico tedesco, a una nuova Eurozona keynesiana. Protagonista delle operazioni dal lato monetario quando era a capo della BCE, l’economista italiano torna a vestire i panni del “cavallo di Troia keynesiano” degli americani in Europa, per portare a termine la trasformazione dal lato fiscale, alla guida del paese la cui manifattura è imprescindibile per la catena del valore dell’industria tedesca.
Il mix di forte espansione monetaria e fiscale a livello continentale, tasso di cambio dell’euro in linea con le esigenze del sistema produttivo italiano ed efficiente utilizzo del consistente pacchetto di fondi destinati al nostro paese, dovrebbe essere nei piani americani il nuovo bazooka caricato per riportare il Bel Paese su un solido e stabile sentiero di crescita poderosa, dopo un quarto di secolo di deflazione e stagnazione. Ciò nel duplice scopo geopolitico di tenere l’Italia unita e solida, quindi non più tentata dalle sirene del Dragone, e di sostenere il motore industriale della Germania.
La rimozione del vincolo fiscale tedesco con la conseguente reflazione di tutte le economie del continente, inoltre, dovrebbe dar luogo a una redistribuzione della ricchezza dal centro alla periferia, riequilibrando l’Eurozona al suo interno e ricomponendo la lacerante divisione tra cicale e formiche. Ne uscirebbe dunque un Vecchio Continente riequilibrato, coeso e stabilizzato, saldamente sotto controllo americano.
Compito principale – per non dire esclusivo – del nuovo esecutivo italiano sarà dunque quello di investire al meglio i fondi messi a disposizione dal Next Generation EU. I due ministri della transazione ecologica e digitale – chiamati ad attuare il Great Reset, cfr La Nuova Società Etica – insieme ai ministri del MEF e del MISE, saranno i soli a definire l’allocazione del pacchetto da quasi duecento miliardi, ovviamente sotto la guida di Draghi e del suo vice. Tutti tecnici, con una sola eccezione politica, non a caso leghista. Di là delle apparenze e delle narrazioni su un governo misto tecnico-politico, si tratta quindi di un esecutivo eminentemente tecnico – e a trazione settentrionale – riguardo alla provenienza dei ministri chiamati a realizzare il grave compito che lo aspetta. E l’eccezione politica, Giorgetti, è, non a caso, proprio la regìa delle due sorprendenti virate di 180 gradi della Lega in meno di un decennio.
Il Carroccio quindi non ha più il ruolo di guastatore del progetto di un’Unione Europea liberista a trazione tedesca, al contrario è ormai il pilastro della sua nuova costruzione keynesiana, nella quale è centrale il ruolo della manifattura dell’Italia settentrionale, categoria produttiva di riferimento della Lega dalla sua fondazione. Da mina anti-sistema è diventato partito istituzionale e stabilizzatore, spinto a gonfie vele dal vento rigeneratore arrivato da Washington.
Per M5S e PD invece si è trattato di un vento di tempesta che, alla stregua di un improvviso e violento schiaffo in faccia, li ha bruscamente risvegliati dalla brutta sbornia cinese. Dalla quale non sarà facile riprendersi.
Grillo ha prontamente invertito la rotta appoggiando clamorosamente il nuovo governo europeista del “banchiere” e mostrando di non aver dimenticato uno dei principali motivi per cui fondò il movimento, un decennio fa: condurre anche l’Italia, paese dove i partiti ambientalisti non hanno mai raccolto grandi consensi, alla transizione ecologica imposta dal Great Reset (cfr La Nuova Società Etica).
La nuova traiettoria del suo movimento rimane tuttavia ambigua, avendo dato il comando all’ex presidente del Consiglio, molto legato al Vaticano, guida dell’esecutivo più filo-cinese della storia nazionale e, last but not least, autore di traffici poco chiari con l’ex inquilino della Casa Bianca, invisi agli apparati americani (cfr Un’analisi geopolitica della crisi di governo).
La virata di 180 gradi del PD è stata meno visibile nella forma, ma non meno eclatante nella sostanza. Nato sotto la regìa della personalità leader del movimento politico, economico e culturale filo-cinese all’interno dell’establishment italiano, Romano Prodi, il Partito Democratico non poteva non includere quel movimento tra le diverse anime – o piuttosto fazioni – che connotano la sua natura conflittuale e definiscono il suo percorso inevitabilmente ambiguo e multidirezionale. Non solo, nel tempo la corrente filo-cinese è diventata la più influente nel determinare la traiettoria del partito, anche per il ruolo sempre più preponderante di padre spirituale di Romano Prodi. Nel 2013 la sua ascesa alla più alta carica dello Stato sembrava andare in porto, ma le lunghe leve americane si attivarono e l’ormai celebre coup de théâtre di Renzi insediò lo sperimentato atlantista Mattarella. L’operazione sarebbe stata riproposta e probabilmente con ben altro esito dal governo giallo-rosso, nel quale l’influente corrente prodiana del PD avrebbe unito le forze al movimento grillino per portare il più importante leader politico italiano filo-cinese al Quirinale. Questa volta la potente mano d’Oltreoceano è intervenuta in modo ben più massiccio, non limitandosi al colpo di fioretto last minute, ma radendo al suolo tutta la postazione nemica con l’affondamento dell’esecutivo giallo-rosso e l’insediamento di Draghi.
Per la ricostruzione dalle macerie è stato richiamato colui che sei anni fa fu bruscamente defenestrato da Palazzo Chigi dal suo stesso partito e che in seguito decise di uscire dalla politica e dedicarsi all’insegnamento presso Sciences Po, il prestigioso istituto parigino fucina della classe dirigente francese. Tutte le fazioni – sarebbe più corretto parlare ormai di bande – del partito hanno deposto le armi e l’hanno votato all’unanimità, dandogli pieni poteri. Un vero e proprio commissariamento, indecifrabile a una mera analisi interna. Tuttavia, alzando lo sguardo oltre le Alpi a occidente, Enrico Letta, non solo è legato, ça va sans dire, alle élite francesi, ma soprattutto molto vicino ai circoli democratici clintoniani e obamiani, tornati alla Casa Bianca con Biden. Probabilmente il più atlantista tra le personalità autorevoli del PD, quindi il più indicato per la sua ricostruzione. Ciò anche in considerazione delle violentissime esternazioni contro Trump di cui si è reso protagonista durante la recente campagna elettorale americana, molto rumorose perché stridenti con lo stile equilibrato e moderato che lo contraddistingue.
Indipendentemente da come proseguirà il percorso di ricostruzione a Sinistra, la traiettoria politica dell’Italia nel decennio appena iniziato pare già segnata, con Draghi stabilmente alla guida – presumibilmente al Colle – di una Terza Repubblica, presidenziale de facto – se non addirittura de jure – e un governo del presidente a trazione settentrionale e leghista.
In Europa stiamo vivendo una fase di grande svolta – paragonabile per portata a quella successiva alla caduta del Muro di Berlino – di cui l’Italia è perno centrale. Non per particolari meriti della classe dirigente, ma per la grande rilevanza strategica data dalla posizione geografica, dal peso economico e dal patrimonio storico, culturale e di competenze tecniche del suo popolo. Ciò genera repentine e disinvolte virate di 180 gradi nell’identità e nei valori delle tre più grandi forze politiche, tali da determinare, probabilmente, un cambio strutturale e storico del percorso politico ed economico del nostro paese.
I più autorevoli commentatori del mainstream nazionale, ancora una volta, sembrano non cogliere le motivazioni più profonde di ciò che sta succedendo, troppo presi a scandagliare il capello su questioni irrilevanti.
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