Il 20 maggio c’è stata la celebrazione dei 50 anni dalla nascita dello Statuto dei Lavoratori, e non un giornale o telegiornale (a meno che qualcosa non ci sia sfuggito, e ne saremmo contenti) che abbia citato il ministro del Lavoro che presentò quella legge oggi da tutti considerata fondamentale: il socialista Giacomo Brodolini. Non solo la presentò, la concepì, incaricò di scriverla un giovane giuslavorista – Gino Giugni, socialista, da tutti chiamato “il padre” dello statuto dei lavoratori, anche se era una definizione che a lui non piaceva – si batté per farla approvare.
E’ una storia lunga quella dello statuto. Anticipato dall’intuizione del leader socialista Turati, aveva avuto un sostegno da parte cattolica, era stato rilanciato dal comunista Di Vittorio (segretario della Cgil) nel 1952. Lo fece anche prendendo spunto da un documento scritto proprio da Giacomo Brodolini. Perché la vita di Brololini si è sempre svolta tra la Cgil (è stato vice segretario) e il Partito Socialista (dopo lo scioglimento del Partito d’Azione). Quando fu sancita la incompatibilità tra le cariche politiche e quelle sindacali, Brodolini scelse il partito.
Con il secondo centro-sinistra guidato da Rumor, diventò ministro del Lavoro. E lì mostrò tutta la sua tempra di socialista di ferro (o di altri tempi).
Sua è la riforma che abolisce le gabbie salariali, ovvero il sistema che dal 1961 stabiliva differenti minimi salariali a seconda della regione di lavoro. La cancellazione venne deliberata nel 1969, anche se la sua abolizione fu graduale e fu completata nel 1972. Sua è la prima organica riforma previdenziale che prevedeva per la prima volta la “pensione sociale” per gli anziani che non avessero versato contributi o con contributi insufficienti a garantire un trattamento pensionistico. Oltre, ovviamente, allo statuto dei lavoratori.
Sono battaglie sulle quali si impegnò a fondo tutto il centro sinistra, tanto che nel discorso di insediamento, Rumor disse senza mezzi termini che il governo considerava prioritario “l’impegno a definire in via legislativa, indipendentemente e nella garanzia della libera attività contrattuale delle organizzazioni sindacali, e con la loro consultazione, una compiuta tutela dei lavoratori che assicuri dignità, libertà e sicurezza nei luoghi di lavoro, con particolare riferimento ai problemi della libertà di pensiero, della salvaguardia dei lavoratori singoli e della loro rappresentanza nelle aziende e delle riunioni sindacali nell’impresa”. La mano di Brodolini, in queste parole, è più che evidente.
Lui stesso amava definirsi “ministro dei lavoratori e non del lavoro”. E lo dimostrò la notte del 31 dicembre 1969 restando con i dipendenti della tipografia Apollon, occupata da oltre sette mesi, che avevano deciso di manifestare contro i licenziamenti proprio nel cuore della Roma del lusso e del bel mondo, in Via Veneto. Fece scandalo che un ministro si “abbassasse” a tanto, ma lui non se ne curò. Anzi, dichiarò ai lavoratori: “Sento il dovere di dirvi che, in casi come questo, il Ministro del Lavoro non pretende di collocarsi al di sopra delle parti, ma che sta con tutto il cuore da una sola parte: dalla vostra parte. Perché un ministro socialista sta da una parte sola, quella degli operai”.
Non ha problemi ad andare ad Avola (Siracusa), a 15 giorni dall’assassinio di due sindacalisti, per chiedere scusa a nome del governo per l’assenza dello Stato in determinate zone del Mezzogiorno. I contadini di Avola scioperavano per chiedere l’eliminazione delle “gabbie salariali”, del “caporalato” e questo, oggi, proprio oggi dovrebbe dire qualcosa.
Era malato di cancro, e lo sapeva. Per questo si impegnò con tutte le sue forze perche il paese potesse comprendere senza equivoci, la prova del cambiamento di politica che c’è stato con il centrosinistra, realizzando quello che è stato il suo capolavoro: lo statuto dei lavoratori.
Gino Giugni racconta nella sua “La memoria di un riformista”: “Sembrava quasi aver fretta di portare a termine il suo compito”.
Il 20 giugno 1969 il consiglio dei ministri approva il testo e dà così inizio al cammino parlamentare del disegno di legge “sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro”. Ma non fa a tempo a vedere il frutto delle sue fatiche. Muore appena venti giorni dopo.
Raccoglie la staffetta Carlo Donat Cattin, un democristiano di sinistra. E da Brodolini, prende non solo il progetto di legge, ma anche la squadra di esperti dei quali il suo predecessore si era circondato. In primis Gino Giugni. Il dibattito parlamentare è durissimo, mesi di scontri. Ma il 20 maggio 1970 finalmente lo statuto diventa legge.
Il Pci, che decenni dopo se ne farà paladino, nel voto finale, si astiene. Per sottolineare – scrive “L’Unità” – <le serie lacune della legge e l’impegno a urgenti iniziative che rispecchino la realtà della fabbrica. Il testo definitivo contiene carenze gravi e lascia ancora molte armi, sullo stesso piano giuridico, al padronato».
Il 20 maggio scorso, nel suo discorso, Mattarella giustamente ha ricordato che l’iniziativa fu di Brodolini. Nessuno, come dicevamo all’inizio, lo ha riportato (il tg2 addirittura ha intervistato Cofferati, a suo tempo comunista, che sulla difesa dell’articolo 18 ha cercato di costruirsi una carriera politica, senza soverchio successo, a dire il vero). Perché? Perché tutti sembrano essersi scordati di un ministro “dei lavoratori e non del lavoro”? Fa paura un ministro socialista che “sta da una parte sola, quella degli operai”?
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