Alle spalle della polemica insorta tra Fedez e la Rai, ci sono due vicende di quadro politico, che si sono fatte strada nei media al di là del carattere ingombrantissimo ma anche giustificatissimo della pandemia, che hanno ovviamente un posto in agenda. Sono due vicende che presentano un tratto antico ma anche scivoloso. Il tentativo in Parlamento di un soggetto politico di contrastare il diritto di discutere con libertà ed esito democratico un progetto di un altro soggetto politico. Il tentativo (ancora da chiarire meglio) di un medium potente di non dare per scontato il diritto di un artista di esprimere come crede i suoi contenuti.
Una vicenda è costituita dal ddl Zan, dal nome del parlamentare del Pd che ha firmato una proposta che quindi non ha ancora effetto di legge, che intende istituire non solo iniziative contro le discriminazioni, ma anche pene severe nei confronti di chi discrimina rispetto agli ambiti LGBTQIA+ (sigla ampliata comprendente Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali, Queer, Intersessuali, Asessuali) e l’ostruzione alla libera discussione che il presidente della Commissione Giustizia della Camera, il leghista Andrea Ostellari, ha finora esercitato (anche se nel clamore finale dichiara che “la colpa dei ritardi è da cercare nella sinistra”).
L’altra vicenda è costituita dalla partecipazione del cantante milanese Fedez al concerto del primo maggio trasmesso in diretta da Rai3. In ordine a cui la direzione della Rete ha tentato di esercitare una forma di controllo preventivo, o meglio di persuasione preventiva, circa i contenuti della “partecipazione” e in ordine a cui il confronto diretto che si è prodotto prima del concerto è ora emerso nelle discussioni (resterà da capire se una telefonata può essere registrata e pubblicata senza autorizzazione) opponendo l’argomento del “no” alla censura preventiva rispetto all’argomento della legittimità editoriale, ovvero del diritto (per ragioni di responsabilità legale) di scegliere e selezionare cosa mandare in onda.
Oportet ut scandala eveniant, si usa dire giornalisticamente e politicamente in questi casi (i filologi lo dicono talvolta risalendo alla frase biblica necesse est enim ut veniant scandala), un modo per limare un po’ il carattere “scandaloso” di un fatto. Ebbene il contrasto parlamentare e politico esercitato finora contro il diritto dell’on. Alessandro Zan alla lunga si è rilevato miope. Si è trascinata a lungo la questione di mettere in democratica discussione una proposta che, come tutte le leggi sui diritti della persona, contiene aspetti di principio che hanno condivisioni e resistenze nella società. Non dovrebbe appartenere a questo genere di argomenti il codice poco democratico del rinvio della questione al limbo. Ma invece molto spesso succede. E comunque oggi il ddl è finalmente calendarizzato. Ma esso è anche riscaldato socialmente da un dibattito polemico quanto socialmente necessario, attorno a cui lo stile Ostellari ha la paternità di un potere (la titolarità di una funzione) a cui Fedez – qui sta la rivelazione di una novità – ha contrapposto la paternità di un altro potere, quello della sua popolarità in rapporto alle opportunità dei socialmedia.
In questa lievitazione, il non contestualizzare le ragioni della polemica assumerebbe in un mezzo televisivo giornalisticamente sano e non politicamente tenuto a custodia, sarebbe pura ipocrisia. Nascondere nomi e cognomi rispetto a dichiarazioni pubbliche, registrate, riportate dai media (diversamente esistono diritti assoluti di rettifica) vorrebbe dire non aver nemmeno chiaro il senso di dare la parola ad artisti in eventi di ascolto popolare. Come si è già visto tante volte, per esempio in occasione del festival di Sanremo, è “ingiusto” (nel senso di non giusto) chiedere a un artista con vasto seguito di dare al medium il vantaggio di una popolarità fidelizzata (che si traduce in ascolti) senza lasciare in cambio la libertà di trattamento dei contenuti comunicativi. La linea editoriale ha diritto di fare scelte, non quella di condizionarle in modo plateale. A suo tempo la Rai chiamava apposta Celentano a Sanremo non per farlo cantare, ma per estendere il perimetro della rappresentazione di alcuni temi in forma diciamo così “indiretta”.
Ecco perché un soggetto di tale tradizione e responsabilità come la Rai – con riserva di vedere meglio chiarite le posizioni effettive – deve avere un management all’altezza di questo delicato equilibrio, come dimostrano infiniti casi pregressi. Management colto, civile, tollerante e con visione plurale che è tale nel momento della scelta e nel momento dei chiarimenti preliminari con i partecipanti. Una modalità che fa parte di un costume semplice. Sapere come è demarcato l’ambito della libertà, rispetto all’ambito della responsabilità. Con una conoscenza reale degli artisti e dei creativi, una mediazione intelligente dei programmisti, oltre alla dote di utilizzare il palinsesto per rimettere in equilibrio eventuali scivolamenti.
A buoni conti così come l’ostruzionismo parlamentare è finito, così anche la censura preventiva non si è tecnicamente attuata. Il che toglie di mezzo un possibile “crimen”, anzi due. Ma lascia in evidenza i tentativi effettuati, che dichiarano la natura di problemi culturali e civili aperti su cui bisogna lavorare in molte direzioni.
Nella discussione che sta salendo tra domenica e lunedì si devono registrare anche opinioni che distinguono di più le vicende, lasciando alla prima – l’ostruzione parlamentare – il dichiarato carattere conflittuale, ma ipotizzando qualcuno per la seconda più orchestrazione da parte di Fedez che malintenzioni da parte della Rai. Lo sostiene un accreditato giornalista come Fabio Martini – responsabile della redazione politica della Stampa – che scrive: “Fedez ha annunciato al mondo di essere stato sottoposto a censura da parte della Rai e come prova ha diffuso (con atto estremamente scorretto) una registrazione nella quale un’anonima voce maschile farfuglia espressioni non chiare e improprie. Poi, col passare delle ore, apprendiamo che la vera censura l’ha compiuta Fedez sulla registrazione, dalla quale emerge che la dirigente Rai, Ilaria Capitani, non opera alcuna censura sul testo poi letto da Fedez, che ha chiaramente orchestrato a tavolino un’operazione autopromozionale. Leader di primo piano, Enrico Letta e Luigi Di Maio, si sono affrettati a commentare senza conoscere tutti i fatti e lo hanno fatto cavalcando l’istintiva indignazione di chi, come molti di noi, non conosceva i dettagli”.
Ho sottoposto questa versione a una persona esperta di social che mi propone una contro-riflessione: “Fedez è uno che non ha alcun bisogno di una polemica orchestrata contro la Rai. Ha in verità un carattere polemico ma seleziona con argomenti e logica i suoi obiettivi. Critica Draghi per la non tutela del mondo del lavoro dello spettacolo. Critica il Parlamento per non aver sin qui voluto sbloccare l’iter del ddl Zan. Ma la critica ai leghisti sull’omofobia avviene con citazioni precise e inoppugnabili. Né lui né la moglie saranno persone perfette, ma in questo caso Fedez ha dichiarato di avere mezz’ora di registrazione che mette a disposizione di chiunque la voglia verificare ed è persona con troppi impegni sociali per fare un falso su una cosa che dichiara con chiarezza. Circa i politici che partono in quarta vien da pensare che sul ddl Zan il Pd non ha fatto molto per amplificare. Così che appena Fedez ottiene molti consensi allora Letta si affretta a sostenere”.
Nel corso della giornata, insomma, la registrazione della telefonata tra Fedez e i funzionari Rai3 va online.
Si scorge un’espressione ambigua: “sono stato esortato ad adeguarmi a un sistema”. E si apre un altro clamore. Su cui l’ad della Rai Fabrizio Salini è costretto a mettere nero su bianco: “In Rai non esiste e non deve esistere nessun sistema, se qualcuno ha detto questo in modo inappropriato, mi scuso”. Aggiungendo comunque che “non si è esercitata censura” e riportando per esteso le battute della vicedirettrice della rete Ilaria Capitani che precisa che la Rai acquista diritti dell’evento non agisce come produttrice e quindi “non ha mai chiesto preventivamente i testi degli artisti e non ha mai operato forme di censura preventiva”. Il direttore di Rai3 Franco Di Mare viene intanto convocato in Commissione parlamentare di vigilanza, mentre Matteo Salvini da un lato invita Fedez “a bere un caffè per parlare di libertà e diritti”, ma dall’altro lato non si defila sul ddl Zan che ritiene “dia ai giudici il potere di criminalizzare le idee”. E il conduttore di Report Sigfrido Ranucci parla di “brutta pagina, un grande cortocircuito di comunicazione, contento che la Rai abbia chiesto scusa”. Sulla 7 in serata Michele Santoro apprezza il “ritorno a un episodio di libertà”, provocato da Fedez, mentre dice che i dirigenti della Rai “non sono più quelli di un tempo”.
Sulla stampa di prima mattina oggi la divaricazione assume toni veramente da “caso”. Sbarca persino sulla BBC (che mette nel titolo la parola “censura”), divide i polemisti professionali (Vittorio Sgarbi lavora d’archivio per screditare Fedez, che replica; mentre Selvaggia Lucarelli “porta a casa”, ma segnala sorpresa per “l’improvviso paladino del mondo Lgbt“); mentre a pieno sostegno scende in campo un avvocato molto speciale, l’ex-premier Giuseppe Conte.
Nelle università di scienze della comunicazione stesso copione. Nella mia, per esempio, lo IULM, ad Alberto Contri non piace chi “ha trovato in questo mondo artificiale una vena d’oro, da prendere freneticamente a picconate per estrarne ricchezza a non finire – soldi, visibilità, sponsor – il tutto riuscendo persino ad apparire, al suo folto pubblico, come un eroe”. Mentre Mauro Ferraresi coglie la trasformazione del potere che la rete mette in scena: “Il nuovo potere delle immagini è potere reale, potere politico che segna indelebilmente la nostra epoca. Che non è più la società dello spettacolo di Debord, e nemmeno la morte del reale di Baudrillard, è semmai lo sforzo ultimo delle immagini per ritornare a essere se stesse, cioè riflesso del reale e verità ultima di questo. Chi padroneggia queste padroneggia un nuovo potere”.
Insomma non mettiamo la parola “fine” su questa vicenda, che ha elementi che in breve saranno accertati. Altri invece che fanno parte di una discussione sull’evoluzione dei media che produce alla fine anche non solo nuove estetiche ma anche nuovi paradigmi. Per questo va almeno detto che la dinamica della rete determina spesso cortocircuiti a causa spesso della propria regola della velocità e dell’immediatezza delle repliche. Tuttavia la sostanza del clamore che si è sprigionato ha il suo fondamento in vicende di resistenza dura di una parte della politica italiana contro questioni di diritti che nel mondo vanno conquistando spazi di parola e di rappresentazione attorno a cui un’azienda come la Rai deve maturare comportamenti uniformi, non viziati da impedimenti messi in campo da logiche di parte e con lo spirito di far crescere conoscenza e consapevolezza senza pregiudizio. Per dirla in sintesi: un’azione di strappo di fronte a conclamati pregiudizi fa parte di evoluzioni naturali della democrazia.
Al proposito mi sia consentito – con tutte le differenze del caso – richiamare un episodio di memoria personale che riguarda proprio la Rai e questioni di conflitto in materia di diritti tra rappresentazione e censura. Rivado alla fine degli anni ’70, nella posizione allora di dirigente e assistente del presidente della Rai (al tempo Paolo Grassi), quando nel corso di un pomeriggio un gruppo di esponenti del Partito Radicale (figure note, che potremmo definire “dirigenza storica” di quel partito, non Pannella e Bonino ma di primo piano, Aglietta, Spadaccia, Cicciomessere e altri), riuscite ad entrare alla spicciolata nella sede di viale Mazzini, dichiararono l’occupazione ad libitum protestando contro il veto ai radicali (forza parlamentarmente rappresentata) di potersi esprimere in diretta nei Tg. La richiesta di incontro con il presidente era impraticabile per assenza del presidente stesso dalla sede per ragioni di salute. La direzione generale si riparava dietro alla precisa richiesta di colloquio con il vertice “politico” dell’azienda. Essere mandato – per volontà del presidente stesso interpellato – a sostenere quel dialogo, avrebbe potuto sembrare un prendere tempo in attesa dell’imbrunire, ma la volontà degli “occupanti” era allora di utilizzare al contrario la notte per dar corpo allo scandalo. Non era dunque rilevante il punto di vista personale. Era rilevante verificare se i responsabili dei Tg avrebbero metabolizzato o meno un esito autorizzativo. Considerai che si dovesse partire dal Tg maggiore, quello a guida dc, perché nel caso degli altri due si sarebbe rischiata una soluzione parziale, cioè differenziata, stressata, alla fine forse non applicabile. E prima dell’arrivo dell’imbrunire arrivò una visione illuminata della questione attraverso le parole del direttore del Tg1 Emilio Rossi (figura rispettata, dentro e fuori la Rai, salvo che tra le BR che nel 1977 lo avevano ferito in un attentato) che si assunse la responsabilità di togliere di mezzo una regola, per altro non scritta, omologando il pari diritto alla diretta per le forze politiche rappresentate in Parlamento in una gestione che sapeva come conciliare libertà e diritti a rischio di conflitto. La delegazione radicale comprese che nell’economia dell’importante risultato era inopportuno sbandierarlo come un trofeo ottenuto con polemiche.
Racconto questo episodio per collocare queste vicende in una lunga storia in cui, dopo la riforma del 1975, anche nel quadro di stagioni con dirigenti e direttori di spessore, c’era chi sapeva come evitare di finire sui giornali come portatore di trattative imbarazzanti. Per come può essere imbarazzante nascondersi dietro alle “inopportunità editoriali”.
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