“Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me” è (anche nella sua dimensione di epitaffio mortuario) quasi certamente la frase kantiana più ripetuta e conosciuta.
Nel testo da cui è tratta essa si riferisce ai campi di indagine e di ricerca che Kant dichiara di avere praticato costantemente nel corso della sua vita.
Nella diffusione conquistata, che inevitabilmente comporta anche sempre un tasso di degradazione del concetto, ha finito spesso per assumere una tonalità forse non voluta dal suo Autore.
Di questo non vi è da stupirsi né da indignarsi. Il carattere sintetico dell’espressione esclude i passaggi precedenti e successivi del ragionamento, ma consegna a quelle poche parole una capacità autonoma di raggiungere i cuori e le menti di milioni di uomini. Un risultato decisamente positivo che essa condivide con una infinità di lacerti strappati al grande pensiero (come alla grande musica o alla grande arte) per diventare preziosi enzimi apparentemente lontani dalla matrice originaria.
La capacità “persuasiva” del motto kantiano sta nell’accostamento apparentemente strettissimo fra la dimensione elevata, di carattere generale ed assoluto, che si rispecchia nell’immagine del cielo stellato e la dimensione personale, necessariamente limitata e vincolante, della legge morale nell’interiorità dell’individuo.
La frase corrisponde e risponde a una caratteristica evidentemente inscindibile dalla esistenza della specie umana.
Si tratta, in sintesi, della necessità di fondare ogni regola di comportamento sulla esistenza di un principio generale, capace di emanare altri e più ristretti principi che si adattano discendendo pian piano sino a coprire e a definire anche gli atti più apparentemente limitati della vita.
Molte e diverse sono, come presto vedremo, le vie per affermare questa norma generale, ma non tutte appaiono positive.
Di per sé l’idea di una forte continuità tra il trascendente e l’immanente, tra il generale e il particolare, tra lo spirituale e il materiale appare come estremamente confortante: le mie azioni non sono solamente il risultato dell’istinto di sopravvivenza o degli obblighi impostimi dalla vita
Esse corrispondono o dovrebbero corrispondere (pur nelle condizioni contingenti) a delle leggi assolute in quanto generali.
Poiché “come è sopra, così è sotto” lo scopo della vita di ciascuno dovrebbe essere quello di sforzarsi a ritrovare nella limitatezza di ogni giorno quella vicinanza con la sfera superiore.
Questa ricerca distinguerebbe la nostra specie dalle altre viventi sulla Terra.
Se si esaminano i comportamenti religiosi sotto questo rispetto, esso emerge con forza.
Che si tratti della Eucarestia che costruisce e permette una Comunione anche fisica tra i due livelli come del pellegrinaggio annuale alla Mecca in tutti i casi la dimensione religiosa si propone come potentissimo avvicinamento tra i due livelli di cui stiamo parlando.
Si può aggiungere che la consapevolezza di questa comunanza di intenti è alla base del rispettoso sincretismo che la Chiesa di Roma ha assunto in particolar modo sotto l’attuale Papato. Non è più in questione la veridicità di una dottrina rispetto all’altra. Ciò che è realmente comune è il percorso dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso che le grandi Religioni Monoteiste perseguono ritualmente.
Diciamo che, in questi termini, la questione del rapporto interiore all’essere umano tra il Cielo e la Morale personale si risolve abbastanza facilmente.
Al rituale e periodico accostamento si aggiungono esplicitamente una serie di norme operative di vita,sanzionate nel corso dei millenni e sempre valide.
L’essere umano che mantenga ogni volta che può il suo avvicinamento anche fisico alla Divinità e ne applichi le indicazioni nella vita di ogni giorno, può infine stare tranquillo.
Quando morirà si troverà finalmente riunito al Grande Tutto e non avrà più bisogno di tentar di colmare un divario che non esisterà più.
Il senso della Vita che ha cercato con serietà e costanza, infine gli apparirà senza più dover faticare.
Assai più complicata appare la questione in altre condizioni.
Esistono persone che non riescono ad accettare la limitatezza della condizione umana connessa alla vita materiale nel rapporto con la sfera superiore.
Esistono altre persone che non riescono invece ad aderire davvero all’idea di una superiore sacralità esterna all’Umanità.
Esistono, purtroppo ed infine, persone che a partire da questa giusta esigenza di Assoluto progettano e costruiscono infamie aberranti.
Andiamo per ordine.
Una volta accettata e riconosciuta l’esistenza di una dimensione superiore che si vorrebbe raggiungere, può diventare assai doloroso riscontrare e scontare quotidianamente la inevitabile limitatezza derivante dalla vita materiale con tutti i suoi condizionamenti.
Si vorrebbe, in altri termini, fare quel balzo quanto prima e con la massima intensità possibile. È su questa base che nascono le forme e le esperienze di misticismo.
Che appartengano al sufismo musulmano o all’esicasmo cristiano o ad altre tipologie esse tendono a rimuovere, anche solo temporaneamente, l’esistenza “normale” per permettere l’accesso alla esperienza desiderata.
Il mistico ci appare come il costruttore di un istmo, magari difficile e instabile. Una lingua di terra che unisce, pur nella sua debolezza, due continenti separati e lontani ma presenti nella sua coscienza.
Ben diversa appare la condizione di chi, a partire dalla stessa percezione, non riesce ad affidarsi a una Divinità che lo guidi nel cammino.
Orfano della potenza dell’Assoluto egli è costretto a ricercarlo soltanto attraverso il Relativo. Sa e sente che quella cosa esiste ma vuole conquistarla direttamente, senza quelle che gli appaiono come deleghe.
Professionista del Dubbio, ben presto capisce che la solidità e il valore delle convinzioni etiche non proviene né dalle leggi umane, né dai pur importanti insegnamenti ricevuti.
È dunque costretto a viaggiare dentro se stesso restando anche immerso nelle contraddizioni della vita materiale.
Lo sorregge a volte un raggio di luce che si profila fra i rami, ma soprattutto lo sostiene l’insegnamento di Blaise Pascal: “Se mi stai cercando, vuol dire che mi hai già trovato”.
A quel punto il cammino di ricomposizione interiore diventa l’obiettivo più importante.
Mentre il mistico rischia di morir folle, il nostro rischia di vivere presuntuoso.
Ma sopra la questione della distanza tra il Relativo e il Trascendente possono fondarsi anche cose molto cattive, capaci di sfidare la stessa dignità umana (almeno come la intendiamo noi).
È facile, in proposito, il riferimento alle dottrine del mondo nazista. Esse, in chiave völkisch, puntavano a una profonda ricomposizione tra la drammatica condizione di un popolo e una dottrina generale del Mondo e della Storia.
Utilizzando spregiudicatamente folclore, esoterismo, magia, occultismo e “scienze di confine” risultavano infine straordinariamente gratificanti: offrivano una spiegazione e una prospettiva in una chiave complessiva che si presentava come capace di dare un senso accettabile alla realtà.
Non per nulla quel che le SS cercavano e imponevano era una vera e propria “illuminazione” (Aufklärung), capace di presentarsi come soluzione globale alla contraddizione centrale della vita umana. Capace di giustificare l’orrore da compiere, ma anche il sacrificio supremo della vita nella certezza di un riscontro e di un ritorno di ordine superiore.
È soltanto riconoscendo e accettando l’efficacia terribile di questo cammino in tutte le sue riproposizioni che possiamo capire e combattere “il male assoluto”.
Nell’animo del terrorista, islamico o non, che si scaglia sorridendo a morire contro altri esseri umani non vi è soltanto rabbia e cattiveria.
Domina, anzi, una ricomposizione del suo spirito, una “illuminazione” che unisce dovere personale e principio generale, che sembra capace di dare un senso a tutto, compresa la propria morte.
Se tutto questo appaia terribile o consolatorio, non chiediamocelo ora.
Magari ringraziamo il vecchio Emanuele Kant che, con poche parole, ci ha aiutato a viaggiare (sempre) tra Cielo e Terra.
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