Nel vissuto di molti – che i giornali del giorno dopo, cioè oggi, cercano di intercettare – prevale la “lezione” che Conte ha dato a Salvini.
L’ex ministro dell’Interno pareva inossidabile, più riceveva critiche più guadagnava consensi. Per molti ciò ha determinato una preoccupazione crescente che non poteva avere nel solo Mattarella e neppure doveva avere nell’arcana vendetta giudiziaria la “soluzione”.
E infatti se ne è incaricato il sodale più autorevole, il garante del contratto di governo, l’avvocato che aveva annotato e digerito giorno per giorno le tante anomalie che – a fronte di un incredibile atto di slealtà – sono state sfoderate in diretta in Parlamento davanti a tutti gli italiani.
Qui, a mio avviso, finiscono i meriti del presidente Conte.
E finiscono qui perché un protagonista della politica non è una moglie tradita. Se vuole transitare politicamente verso qualcosa, anche fosse un approdo futuro, deve spiegarsi e spiegare che nessi ci sono tra quelle pesanti anomalie e l’andamento di un governo in cui più di altri lui sa quanto esse abbiano gravato. Ma di quel governo Conte ha creduto di salvare tutto. Nemmeno una parola per mettere in discussione una formula troppo ardita e in fondo troppo poco incardinata su vere culture di governo.
Questo squilibrio dell’atto finale è stato per giunta aggravato dalla terza parte del suo progetto retorico, quella dedicata a delineare cosa si dovrebbe fare – ovvero cosa lui stesso sarebbe ancora in grado di fare – scaricato il pesante fardello sotto la gragnuola di schiaffi, senza un filo di ironia, senza un filo di autocritica.
A ricomporre il quadro disastroso di un improvvisato sistema che ci ha governato per quattordici mesi, la diretta televisiva del Senato non ci ha solo proposto la mimica buffa dello spiazzato (spiazzato dalle parole) capo della Lega, ma anche la mimica congelata, raggelata, inespressiva dell’altro spiazzato (questa volta spiazzato dal cumulo degli insuccessi sottaciuti) capo dei 5S.
L’idea che la requisitoria potesse incenerire un partner e glorificare l’altro poteva essere solo un proposito infantile per tenere insieme nel momento della separazione i due gruppi parlamentari che sono risultati artefici alla pari di un fallimento. Uno attorno alla difesa di un capo preso a cinghiate. L’altro attorno ad un capo reso completamente estraneo dalla narrativa. E per altro mai citato.
La seduta che doveva incarnare la parlamentarizzazione della crisi passa ora dall’analisi dei cronisti all’analisi degli storici. Che ne metteranno in evidenza fragilità culturali, improvvisazione interpretativa, marginalità di valutazione dei veri nodi della crisi nazionale e internazionale che l’Italia ha attraversato e, ben inteso, un eccesso di personalizzazione psicologica.
Purtroppo ciò rende al momento più difficile la ricerca di una via di uscita.
Ma se abbiamo il coraggio di passare dal presente come caso al presente come parte di un’evoluzione storica per lo più drammatica (dove naturalmente ce ne è per le molteplici responsabilità di chi ha governato almeno i venti anni precedenti), meglio ora cercare le vie di uscita guardando in faccia la verità fino in fondo.
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