Leggendo “Il mio territorio finisce qui”-Vite di minori tra il reato e la pena, di Maria Teresa Spagnoletti, Ediesse, in cui l’Autore, presidente del Collegio dibattimentale penale e magistrato di sorveglianza del Tribunale per i minorenni di Roma, racconta con linguaggio asciutto, a volte anche duro, le vicende umane di molti minori incontrati nelle aule di giustizia e nelle carceri minorili, sono riandato con il pensiero a uno dei film drammaticamente più belli di Vittorio De Sica, “Sciuscià” del 1946, che fin dal titolo (“sciuscià” è la storpiatura di “shoe-shine”, lustrascarpe) mette le carte in tavola: neorealismo puro, anche nel modo di concepire il lessico comune. “Sciuscià” ha dalla sua una intensità poetica e un senso di profonda dignità umana che ne fecero, col tempo, un vero e proprio cult generazionale, per intere schiere di cinefili americani, tra i quali spiccano Martin Scorsese (tanto da omaggiarlo nel suo “Il Viaggio In Italia”), Woody Allen, Orson Welles (che considerava De Sica il più grande regista italiano).
Impregnato di miseria e guerra, “Sciuscià”, come forse i non più giovanissimi ricorderanno, racconta la triste vicenda di due piccoli lustrascarpe, abituati a vivere ai margini della legalità nella Roma della borsa nera e dei soldati di lingua inglese. Decidono di comperarsi un cavallo bianco, ma finiscono invischiati, loro malgrado, in una losca storia di furti e rapine, e finiscono, senza colpe, al riformatorio. Vengono così a contatto con un mondo brutto e crudele, fatto di soprusi, botte, violenza e pietà. Tentano di evadere, ma durante la fuga, troveranno la morte.
Sceneggiato dal grande Cesare Zavattini, con un giovanissimo ma già promettente Franco Interlenghi nel ruolo di uno degli “sciuscià”, il film, soprattutto nella seconda parte, affronta il tema di un destino ineluttabile, tragico, senza possibilità di redenzione per i due ragazzi, tra le macerie morali e materiali di un’Italia appena uscita dalla guerra, quando ormai tutto è perduto, niente è più in grado di salvarsi, nemmeno l’innocenza e la purezza.
Ben diverso l’intento di Maria Teresa Spagnoletti, come magistrato e come scrittore: se giudica i reati commessi, non giudica mai le persone, non rassegnandosi all’ineluttabilità di un destino, anche laddove appare a prima vista segnato e immodificabile. Ecco perchè nella sua lunga attività in magistratura ha sempre saputo ascoltare le storie personali dei minori, dando loro fiducia per un reinserimento nella società civile, attraverso l’esperienza scolastica, l’impegno nel volontariato, il lavoro solidale. Come tiene a sottolineare Luigi Berlinguer nella stupenda Prefazione al libro: “E’ opinione diffusa che un tale obiettivo (il recupero N.d.C.) sia di assai difficile realizzazione e si tende a trascurarlo, rinviarlo. E invece il tema è molto rilevante e attuale, e non può essere rinviato in eterno, perchè verrebbe a mancare un aspetto qualificante e di rilievo dell’equità del nostro sistema giudiziario. Il tema appunto del recupero. E cioè dell’importanza di non ritenere concluso l’intervento con la pronuncia della sentenza di condanna. Anzi, l’attenzione maggiore del libro è rivolta proprio a coloro che vengono condannati. Una concezione moderna e liberale della nostra democrazia non può ritrarsi difronte al grande tema del recupero, e più in generale all’atteggiamento nei confronti di chi è considerato trasgressore”.
Venti storie di ragazze e ragazzi “difficili”, suddivise in quattro blocchi (le misure cautelari applicate in sede di convalida di arresto, l’udienza dibattimentale, l’esecuzione della pena, l’esecuzione delle misure di sicurezza): il libro è una mirabile testimonianza non solo di un impegno e di una cultura mai venuti meno davanti al pregiudizio sociale e alla deriva autoritaria così spesso affioranti nella odierna società, ma soprattutto il racconto di un’esperienza che vuole dare luce ad un mondo che molti ignorano.
Come ha scritto nella seconda Prefazione Don Gino Rigoldi, cappellano del “Beccaria” di Milano: “Mentre leggevo il libro…mi è venuto in mente il titolo di un bel libro di Deaglio “La banalità del Bene”, dedicato alla straordinaria creatività do un italiano a Budapest durante l’occupazione. Forse “La banalità del Bene” potrebbe essere il sottotitolo anche di questo piccolo e prezioso libro che incoraggia tutti noi a non perdere mai la speranza”.
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