Di recente il Sud e la sua gente sono stati colpiti da un giudizio inclemente espresso da Vittorio Feltri. Non mi interessa scrivere un’apologia sulla cultura, la civiltà e la storia millenaria del Mezzogiorno d’Italia, da cilentana innamorata della propria terra sarebbe scontato e, forse, inutile.
Voglio, invece, proporre la lettura appassionata della terra della Lucania che Carlo Levi fa nella sua famosa opera “Cristo si è fermato ad Eboli”. Levi non era nato al Sud, era nato a Torino nel 1902, nell’area che sarà quella del triangolo industriale e poi della Padania leghista. A causa del suo antifascismo fu inviato al confino ad Aliano, in Lucania, nei pressi di Matera, capitale europea della cultura nel 2019. Da quella esperienza nacque il suo capolavoro, un canto d’amore amaro ma rispettoso ed intenso verso il Sud, verso quelli che lui definiva i MIEI CONTADINI. Il suo è uno sguardo lucido, a tratti affascinato, sulla civiltà contadina lucana, uno sguardo intellettualmente onesto e lontano da ogni preconcetto di certa sub cultura o pseudocultura dei nostri giorni. Una pseudocultura che, ai tempi del Coronavirus, appare ancora più grave e colpevole di gretta cecità.
“Chiuso in una stanza (erano gli anni della clandestinità fiorentina a causa delle retate nazifasciste, il biennio 1943/44) mi è grato riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla storia e allo stato, eternamente paziente, a quella mia terra senza conforto e dolcezza […] terra oscura, senza peccati e senza redenzione, dove il male non è morale ma è un dolore terrestre che sta per sempre nelle cose.”
È questo l’incipit del romanzo da cui affiora, da subito, un sentimento di profondo rispetto e di amara consapevolezza dell’ingiustizia della storia, del potere politico e del suo profitto, capaci di stritolare intere popolazioni di innocenti, eternamente pazienti, chiuse in un dolore terrestre, vissuto con dignità, compostezza, oserei dire, però, con colpevole rassegnazione, ma protette e rese forti da una millenaria civiltà contadina, magari svilita da quella che noi usiamo chiamare progresso, ma mai arrendevole di fronte ai valori della solidarietà, legge morale che porta ad accogliere, ad includere, a condividere.
“Dove non c’è senso di stato, nè di religione, tiene con maggiore intensità (il sentimento di consaguinità). Non è l’istituto familiare, vincolo sociale, giuridico e sentimentale, ma il sacro, arcano e magico di una comunanza. Il paese è tutto legato da queste complicate catene che non sono soltanto quelle materiali delle parentele…“
All’intellettuale torinese dovettero impressionare molto i legami forti intessuti all’interno di una comunità dove ci si sentiva tutti uniti e vicendevolmente pronti a sostenersi pur nella miseria più profonda, aldilà delle mille beghe che, comunque, fatalmente si generano in una realtà piccolissima dove tutti sanno tutto.
La civiltà contadina è legata, fatalmente, ai frutti della terra, una terra madre spesso avara ma sempre in grado di garantire l’essenziale. Ne deriva che la donna e la fertilità assumono un significato sacro e profano insieme.
“Giulia posò con pazienza […] così potei dipingerla […] la dipinsi col suo bambino in braccio; se c’è un modo di essere materni, dove non traspare nessun sentimentalismo, questo era il suo: un attaccamento fisico e terrestre una compassione amara e rassegnata; era come una montagna battuta dal vento e solcata dalle acque da cui sorgesse una collinetta più verde e gentile.”
Levi dipinse molto nei giorni del confino, soprattutto i volti della gente, volti solcati da segni profondi lasciati dal sole a stigmatizzare una vita vissuta nella fatica più dura, in un’afa cocente, dimenticati da tutti.
Per i contadini lo Stato “era più lontano del cielo e più maligno perchè sempre dall’altra parte […] c’è la grandine, la fame, la siccità, la malaria e c’è lo stato. Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Non importa quali siano le sue forme politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perchè è un altro linguaggio dal loro […] la solo unica difesa contro lo stato […] è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura.“
Se lo Stato è assente e “cattivo”, allora in questo mondo entrano in campo a soccorrere forze ultraterrene: le streghe, i filtri magici, i monachicchi, le formule da pronunciare sull’uscio di casa guardando una stella per garantire il ritorno dell’innamorato, gli angeli protettori che al crepuscolo scendono dal cielo a guardia della casa e grazie ai quali nè i lupi, nè gli spiriti cattivi possono entrare per tutta la notte. Questa atmosfera numinosa non dispiaceva affatto all’intellettuale, attento sempre al reale, nè se ne allontanava sdegnoso ma ne assaporava l’arcaica suggestione che faceva di quella terra, una terra unica dal fascino inconfondibile, una terra che a dispetto di una secolare indifferenza politica aveva saputo costruire meccanismi di sopravvivenza alternativi. Ciò che lo turbava profondamente era la passività, la rassegnazione, la resa totale di fronte allo Stato che volutamente ignorava questa realtà docile e sottomessa.
“Io pensavo a quante volte, ogni giorno, usavo sentire questa parola, in tutti i discorsi dei contadini – niente – che cosa speri? Niente. Che cosa si può fare? Niente […] e gli occhi si alzano, nel gesto della negazione, al cielo. L ‘altra parola era crai, il cras latino. Tutto quello che si aspetta, che deve arrivare, che deve essere fatto o mutato, è crai. Ma crai significa mai“.
Eppure… “i bambini erano, in generale, molto più intelligenti e precoci dei ragazzi cittadini della loro età, rapidi nell’intuire, pieni di desiderio di apprendere e di ammirazione per le cose ignote del mondo di fuori“.
È certo che proprio a quei bambini Levi si rivolgeva col cuore e con la mente, è a loro che offriva la sfida di quel mondo incompreso e carico di dolore a causa della responsabilità di tanti, troppi che, ancora oggi, come Feltri, espressione dell’egoismo plutocratico e della supponenza intellettuale, non sono in grado di distinguere il progresso civile dal profitto incondizionato e dallo sfruttamento.
E questo deve turbarci e molto, moltissimo, soprattutto oggi.
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