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Capita frequentemente, in questi mesi strani, di prevedere e sentir prevedere che nulla sarà più come prima. Ci sveglieremo, si dice, in un mondo totalmente diverso da quello che abbiamo conosciuto sinora.

Chi ha figli di giovane età collega questa previsione a una speranza, ipotizzando che potrebbe trattarsi di un mondo migliore, più aperto e flessibile, più capace di premiare la cultura e l’impegno, più disponibile al cambiamento positivo.

Meno, si spera, portato a difendere poteri non motivati, rendite di posizione. Meno, soprattutto, determinato quotidianamente dalla corruzione personale e di gruppo.

In realtà, nulla di quanto è avvenuto negli ultimi anni giustifica questo ottimistico pensiero.

L’Italia più recente ha vissuto l’imprevedibile espansione della corruzione diffusa, l’elogio sistematico della ignoranza e della incompetenza, l’estinzione delle appartenenze ideali, il rifiuto degli obiettivi generali che apparivano sinora come l’unico filtro per collegare i bisogni parziali a quelli di carattere collettivo nella prospettiva dello sviluppo.

Abbiamo di fronte una società italiana che, nella sua parte civile come in quella politica, appare organizzata in un complicato sistema di bande che attraversano, di continuo modificandosi, istituzioni, partiti, assetti economici. Periodicamente emerge questa realtà e, se oggi ci aprono gli occhi sulla magistratura, domani sarà su quel partito, quel ministero, quella fede religiosa.

Il risultato di tutto questo è un continuo movimento in cui ogni individuo opera direttamente per sé in contrapposizione con tutti gli altri salvo quelli che, in quel particolare momento, possono risultare utili per i suoi particolari fini.

Una non trascurabile conseguenza di ciò è il ben manifesto odio e disprezzo di ognuno verso tutti gli altri che confliggono con i suoi fini immediati. Vi fu un tempo in cui i politici non sputtanavano i politici, i magistrati non delegittimavano i magistrati, i medici non irridevano i medici… e così via.

Naturalmente, poiché il male si apprende più facilmente del bene, l’intera società italiana (ben armata di social) ha adottato, ognuno al proprio livello di competenza e di interesse, un modello di comportamento di questo tipo.

Ora, perché questo quadro dovrebbe portarci a pensare che tutto questo finirà per sfociare in un benefico risultato? Perché non ritenere, invece, che questo degrado dell’ultimo periodo non possa diventare definitivo e stabile?

Ovviamente si è portati a pensare che l’Italia deve sopravvivere e che dovrà, in un modo o nell’altro, curare i propri malanni e modificarsi profondamente.

Siamo spinti a ritenere che questo grave peggioramento delle malattie nazionali, tanto grave da aver costretto a intervenire il medico impietoso, sarebbe l’ultimo aggravamento prima della guarigione.

Penso, e forse temo, che non sia così.

A ben guardare, infatti, non si sfugge a una sgradevole consapevolezza.

Quel che oggi ci si presenta come crisi della II Repubblica è in realtà la piena e fattiva realizzazione degli scopi profondi per cui essa venne fatta nascere e segna il culmine del potere politico che la generò.

Non dovremmo farci ingannare e stupirci ora che quel modello politico – istituzionale non funzioni e ci porti alla deriva. Per la verità lo sapevamo da prima e, per questa consapevolezza, ci battemmo contro e venimmo sconfitti.

I primi anni ‘90 segnarono la consapevole ed organizzata sterilizzazione di ogni flusso democratico nella vita del Paese. Distruggendo (ed esaltando la distruzione) di ogni forma di rappresentanza sociale, culturale e politica si annullò il concetto di continuità delle proprie azioni che era stato sino al giorno prima stimabile segno di serietà.

Ognuno potè scordare quel che aveva fatto o detto il giorno prima e, soprattutto, acquisì quel nefasto diritto per sempre.

Si disperse il concetto stesso di responsabilità politica ed istituzionale. Le scelte politiche avvennero, quando avvennero, completamente slegate da necessità razionali o espresse socialmente. Ognuno iniziò, nel proprio campo, a difendere soltanto i propri interessi immediati rinunciando a un interesse, anche personale, di prospettiva.

È ben vero che solo attraverso quella negazione democratica i post – comunisti (ben peggiori dei trinariciuti predecessori) avrebbero potuto prendere il potere. È anche ben vero che solo in quella situazione avrebbe potuto nascere un partito padronale proprietà di un grande e simpatico imprenditore.

Non stupisce però che, in quella condizione di nascita, nessuna forza politica sia riuscita ad imprimere un qualche indirizzo alla propria azione. L’Italia non è diventata né più libera e moderna, né più giusta e democratica. Al contrario, si è corrotta e feudalizzata diventando, anche nel profondo, più cinica ed opportunistica di quanto già non fosse.

La nascita di un movimento nato da un attor comico condannato per omicidio colposo e noto per accettare soltanto pagamenti in nero, è stata soltanto “l’ultima raffica di Salò” del regime. A differenza di essa, però, senza rischiare di perdere la vita e nemmeno lo stipendio.

Insomma, io credo che l’attuale imbarbarimento non si debba considerare come una patologia superabile nell’attuale contesto politico ed istituzionale per poi tornare a vivere felici.

L’Italia è oggi come il Libano di qualche anno fa. Ognuno combatte contro tutti, alleandosi momento per momento con chi si ritenga conveniente farlo. I grandi corpi dello Stato perdono il senso di sé mentre il tessuto economico si finanziarizza e non fa più corrispondere i propri bisogni con quelli della Nazione.

Solo con il completo superamento di questa condizione che abbia al suo centro il recupero della dinamica Stato – società civile l’Italia potrà rinascere.

Non illudiamoci, però, che chi ha deliberatamente costruito il mostro possa oggi sinceramente contribuire ad abbatterlo.

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Beppe Attene

Sardo, 1949, socialista da sempre e per sempre. Buttandosi nella politica professionale ha gettato al vento il suo precedente lavoro (Storia del Pensiero Economico presso Facoltà di Filosofia di Cagliari, come assistente di Paolo Spriano). Uscito dalla politica professionale, è stato Direttore di Cinecittà (Produzione filmica) dall’84 al ’90. Dal ’90 al ’93 è stato Direttore Generale del Luce. Ha compendiato gli anni di politica attiva in un libro intitolato “Politica e società civile, un matrimonio difficile” con prefazione di Riccardo Lombardi. Dopo la apertura della caccia ai socialisti è stato produttore e distributore, con alterne fortune e sfortune, per diversi anni. Quasi senza accorgersene nel 2000 ha vinto un Festival di Cannes. Ha diretto per alcuni anni le Grolle d’Oro di Saint Vincent. È stato giurato in numerosi festival italiani ed internazionali Ha diretto, come autore, un doc su Bruno Mussolini intitolato “Bruno e Gina” e uno intitolato “1945, l’anno che non c’è”. Ha appena pubblicato un libro intitolato “Una lunga catena di unione”. Ha visto momenti peggiori ma anche migliori.

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