Questo articolo precede l’intervista che Giuseppe Corigliano, collaboratore di Moondo e membro della direzione dell’Opus Dei per l’Italia negli anni ’70 e ’80, direttore della comunicazione dell’Opera in Italia per quarant’anni (dal 70 al 2011), ha concesso in esclusiva al nostro giornale in occasione dei 45 anni dalla morte di San Josemaría, fondatore dell’Opus Dei, in programma per venerdì 26 ore 17;00.
Il 26 giugno cade la festa dedicata a San San Josemaría, il Fondatore dell’Opus Dei, che in quel giorno del 1975 morì nella sua casa di Roma.
L’Opus Dei ed il santo fondatore sono amati da chi ne condivide lo spirito mentre i miti creati da una certa letteratura giornalistica hanno creato un alone di mistero che oggi come oggi non ha alcun motivo di esistere. Basta consultare il sito Opusdei.org per ottenere documentazione, spiegazioni e testimonianze in abbondanza.
Mi vorrei fermare sulle motivazioni di fondo che hanno animato il messaggio del Fondatore: motivazioni radicali e semplici ad un tempo, che in parte spiegano la difficoltà di comprensione per chi non ha la conoscenza diretta delle attività e delle persone dell’Opera.
Il messaggio dell’Opus Dei è di una tale ampiezza e profondità che rischia di sfuggire ad uno sguardo superficiale. Nella storia della Chiesa un ritorno alle origini di tale intensità non c’è mai stato. Ci sono state nel corso dei secoli sottolineature di particolari messaggi contenuti nella grande chiamata evangelica: sottolineature importanti.
Nei primi tempi dopo le persecuzioni, quando il cristianesimo è diventato quasi la religione di stato, c’è stato il fiorire della vita contemplativa dei monaci che si contrapponeva al rischio di mondanizzare la fede, successivamente prende vita l’approfondimento della dottrina cristiana dei domenicani, l’esaltazione della carità, della povertà e dell’umiltà evangelica dei francescani, più tardi l’intensità della formazione cristiana per la classe dirigente promossa dai gesuiti, poi l’organizzazione della carità in chiave sistematica di San Francesco de’ Paoli, e tantissime altre meravigliose iniziative.
Nel caso dell’Opera non c’è un fine specifico da realizzare ma una rivoluzione antropologica basata sulla fede. Il fine primario dello spirito dell’Opera è l’identificazione con Cristo attraverso le circostanze in cui vivo. Un fine che ha un duplice aspetto:
Questo è in sintesi il gran dono dello spirito dell’Opera che, d’altra parte non è una dottrina ma uno stile di vita.
Come il messaggio evangelico non è un dato sapienziale astratto e dottrinale ma è plasmato dalla vita di Gesù, così vivere lo spirito dell’Opera non può prescindere dalla vita di San Josemaría. Non è un paragone irrispettoso perché i santi sono persone che si sono identificate con Gesù.
Per conoscerlo meglio conviene vedere i filmati che lo riprendono mentre parla con la gente. Sono utili perché fanno capire il personaggio, che non cambiava atteggiamento quando c’era la macchina da presa che lui sempre ignorò. Nel sito Opusdei.org c’è una sezione a lui dedicata che conviene frequentare. Un contatto con lui dà la carica. E poi i libri suoi, cominciando da Cammino, e i tanti libri su di lui.
Il personaggio era talmente significativo che portò nella mia visione della vita delle vere e proprie rivoluzioni. Un giorno andammo a trovarlo e ci disse: “Trovatemi un vecchietto di settant’anni che vi parli d’amore come me”. E in effetti la sua è stata una vita da innamorato: un amore, come quelli che non si scordano per tutta una vita, incominciato a sedici anni quando vide sulla neve le tracce dei piedi di un carmelitano scalzo. “Si può amare Dio fino a questo punto” pensò e seguì le tracce sulla neve fino a trovare quel frate. Ma la sua non era una vocazione da frate. Capì che Dio voleva tutto il suo cuore per aprire un altro cammino: il cammino della santità per le persone comuni in mezzo alle vicende di ogni giorno. Riportare i cristiani a quell’entusiasmo e fede dei primi tempi del cristianesimo. Perciò si fece sacerdote e, all’età di 26 anni, Dio gli fece capire che questo era il compito, il grande compito, che gli affidava.
Quando lo conobbi aveva 59 anni e mi colpì immediatamente il suo affetto. Questo fu il primo rivolgimento interiore: prima pensavo che essere cristiano significasse aderire a un sistema di pensiero e invece no. Da lui ho imparato che un cristiano è uno che sa voler bene. E’ stata una sorpresa. Lui per primo dava l’esempio. Capiva le persone, si dedicava ad ognuno come se non avesse altro da fare. Era davvero un padre e i primi che lo seguirono lo chiamavano così: il Padre. Faceva notare che Gesù aveva dato un distintivo ai suoi seguaci. “Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri”. I cristiani dovevano riconoscersi per come si volevano bene. Non perché erano sobri, casti, educati, colti, ma perché sapevano voler bene, come Gesù. Naturalmente la dottrina, il catechismo, la teologia sono necessari, ma sono un aiuto per amare meglio … E questa fu la prima rivoluzione.
Un’altra rivoluzione ai miei occhi fu il modo di rivolgersi a Dio. Prima credevo che l’atteggiamento dovesse essere riguardoso e attento, un po’ come i manuali di preghiera ottocenteschi in cui si dava a Dio del “Voi” e le preghiere erano inframmezzate da esclamazioni supplici: “Deh, la clemenza Vostra …”. Con San Josemaría si imparava a rivolgersi a Dio come un figlio piccolo con suo padre. D’altra parte Gesù chiarisce che se non si è piccoli non si può entrare nel regno dei cieli. Figli e figli piccoli. Nel primo libro di consigli spirituali di San Josemaría, il noto Cammino, ben due capitoli sono dedicati all’infanzia spirituale. “Sii piccolo, molto piccolo. Non avere più di due anni di età, tre al massimo…” (n. 868).
Questa immediatezza e spontaneità non significava sminuire l’importanza della lettura spirituale, dell’approfondimento del significato della Santa Messa, del sacramento della Confessione, della recita del Rosario e delle altre pratiche religiose del cristiano. Anzi sono un invito a scoprirle nel loro vero significato. Perché se è vero che lo Spirito soffia dove vuole, è anche vero che, se non si tengono le finestre aperte, come può entrare quel vento nel cuore? L’immediatezza e la spontaneità nel rapporto con Dio mi garantiva la freschezza sempre nuova che salvava dall’abitudine: dalla routine che inaridisce anche le pratiche religiose più profonde.
Una volta, per prendere in giro i democristiani, si diceva che erano Piccoli, Storti e Malfatti, che erano altrettanti cognomi di esponenti del partito. Io potrei dire che, davanti a Dio, mi sento così: piccolo, storto e malfatto. Ma questo è il bello del sentirsi figli bambini. Anche se io sono così come sono, Dio mi accetta. André Frossard diceva che Dio sa contare fino a uno, per cui siamo tutti figli unici. I napoletani dicono, com’è noto, che “ogni scarrafone è bello a mamma soia” (ogni scarafaggio è bello per sua madre). Anche se pare impossibile, per Dio siamo amabili, basta rifugiarsi in Lui come fanno i bambini con la mamma… Altra rivoluzione per me.
L’altra sorpresa è stata la santificazione del lavoro. Intendiamoci, per me la passione per lo studio e per la professione c’era. Ma altra cosa è l’idea di santificarsi nel lavoro, santificare il lavoro, santificare gli altri col lavoro. Grazie a San Josemaría ho abbandonato definitivamente la normativa kantiana: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me. Una massima che mi è stata sempre indigesta. Va bene il cielo stellato, anzi va meglio che per Kant, che di cielo stellato vedeva poco perché non viveva nei pressi di Sorrento. Ma quanto sia significativa la legge morale – così senza un fondamento – per un napoletano è facile immaginarlo. Invece San Josemaría faceva partire dall’amore l’intenzione di un lavoro ben fatto. “Signore cerco di far le cose bene per amor tuo”. E allora tutto cambia.
“Fai quello che devi e mettiti in quello che fai…” recita un punto di Cammino (813)
Una volta il noto scrittore Vittorio Messori fece un libro inchiesta su San Josemaría e l’istituzione da lui fondata, l’Opus Dei, e incontrò fra gli altri una collaboratrice domestica che aveva un regime di vita piuttosto intenso. “Ma lei perché fa tutto questo?”. La ragazza rispose con semplicità: “per amor di Dio”. Messori si commosse e cominciò a ripetere: “Per amore di Dio, per amore di Dio … chi dice questo oggi?”. Effettivamente lavorare per amor di Dio sembra una novità.
Se ci sta o’core la cosa cambia aspetto. Allora la vita diventa un progetto di Dio, diventa un opus Dei, un’opera di Dio, perché se lavoro per amor di Dio chiederò a Lui di aiutarmi, perché io sono capace di fare solo sgorbi da bambino. E invece mio Padre Dio mi prende per mano e mi conduce a scrivere bene, con la gioia nel cuore, che diventa contagiosa e produce effetti gioiosi.
Ci sono due personaggi, Mozart e il regista Spielberg, in cui si sente la nota fanciullesca, la creatività del bambino. Entrambi hanno incominciato da piccoli, quasi per gioco. Spielberg ricevette in dono la sua prima macchina da presa all’età di sei anni e Mozart a tre anni batteva i tasti del clavicembalo, a quattro suonava brevi pezzi, a cinque componeva. E questo vale anche per me: se lavoro da figlio piccolo di Dio produco sinfonie e film d’avventura. Può sembrare un’affermazione eccessivamente ottimistica, ma per me è vera. Ecco l’altra rivoluzione: il lavoro, che prima era un dovere pesante, diventò un’occasione di luce.
Un’altra rivoluzione fu scoprire che il rapporto cordiale con gli altri derivava dal rapporto che San Josemaría intratteneva con Dio. San Josemaría vedeva anime, persone da amare e travolgeva tutti con un affetto sorprendente e trascinante. Era impossibile mantenere un rapporto formale con lui. Rompeva tutti gli schemi e andava diritto al cuore. Faceva l’esempio del medico che quando va per la strada pensa: quella persona deve avere mal di fegato. E così un calzolaio vede scarpe dappertutto o un sarto guarda gli abiti. Allo stesso modo lui insegnava a vedere anime, a guardare le persone come le guardava la loro madre.
Una volta, in una riunione all’aperto con qualche migliaio di persone, un giovane barbuto si alzò per fargli una domanda. “Padre gli disse, con tutto il rispetto…” “Con tutto il rispetto e con tanto di barba” lo interruppe il Padre scherzando. “Una barba che sto per tagliare …” “Ti sta benissimo figlio mio”. “Padre, io sono ebreo…” Il Padre lo interruppe di nuovo e, in modo appassionato, gli disse “Io amo molto gli ebrei perché amo follemente Gesù Cristo che è ebreo, non dico “era” ma “è”, Gesù Cristo continua a vivere ed è ebreo come te. E il secondo amore della mia vita è un’ebrea, Maria Santissima, madre di Gesù, perciò ti guardo con affetto…”. “Padre, ha già risposto alla domanda che volevo farle”… e il giovane si sedette in un applauso generale. Piccolo episodio ma significativo perché San Josemaría era così con tutti: capiva ciò che avevano nel cuore.
Le persone che stavano con lui imparavano naturalmente ad avere un rapporto delicato con gli altri, a curare quei particolari della vita quotidiana che possono essere messaggeri di delicatezza e affetto. In un incontro in Brasile una signora si alzò e gli disse:“Padre sono sposata da 26 anni, ho cinque figli…”
“Senti, non dici la verità, ventisei anni, così giovane e così bella…”.
“Sono emozionata, Padre. Ho sentito molte volte che il Padre raccomanda alle coppie di volersi bene come fidanzati. Come potrei conservare e aumentare nel mio matrimonio…l’entusiasmo… dei primi tempi?”
Le ultime parole vengono pronunciate quasi a singhiozzo per l’emozione.
“Calma, calma figlia mia. Ti ascolto con molto piacere, e anche tutti gli altri pendono dalle tue labbra… Tu sarai…” Il Padre si volta e chiede sottovoce: “Come si dice fidanzata in portoghese?” Gli suggeriscono: “enamorada”.
“Tu sarai un’enamorada perenne… costante… Ogni giorno devi conquistarti tuo marito e lui te, capito? Per questo il Signore ti conserva così bella e attraente. In modo che, figlia mia ci riuscirai se guardi tuo marito per quello che è: una gran parte del tuo cuore, tutto il tuo cuore. Se sai che lui è tuo e tu sei sua. Se sai che hai l’obbligo di farlo felice, di partecipare alle sue gioie, alle sue pene, alla sua salute e alla sua malattia, quando le cose vanno bene e quando vanno male. Cerca di tenerlo sempre contento.
Voi donne siete psicologhe, ne sapete più di ogni altro al mondo, perché l’amore è sapientissimo. Quando tuo marito torna dal lavoro, dall’ufficio, non farti trovare arrabbiata: sistemati, fatti bella. E col passare degli anni, aggiustati un po’ di più la… facciata, come si fa con le case… Lui te ne sarà grato tanto, tanto. Molte volte nei momenti di difficoltà che avrà avuto nel lavoro ha pensato a Dio e ha pensato a te, e avrà detto: ‘sto per andare a casa, che bello! Lì troverò un angolo di pace, di allegria, di affetto e di bellezza’, perché per lui non c’è niente di più bello al mondo di te. Ma che sia vero, eh? Non avvilirlo, sii furba. Tu ti sei conquistata il suo cuore, e lo tieni molto stretto. Tu lo innamorerai ogni giorno un po’ e lui te.
E poi lo conquisterai un po’… con lo stomaco. Non trascurate la cucina mamme! La casa ben tenuta sì, ma la cucina, il pranzetto… E quando arriva, tu… non è che lo devi far diventare grasso, grasso… no. Ma che tu lo curi con affetto… è il tuo tesoro! E il giorno che torna stanco, e tu lo sai, lo prevedi, ti ricordi di quel piatto che gli piace e pensi: adesso glielo faccio. E non glielo dici per non farglielo pesare. Gli fai una sorpresa. E lui ti guarda con certi occhi, eh? E’ così, è così, forza! Che la colpa è vostra quando le cose non vanno bene. Loro sono dei bambini. E il figlio più piccolo che avete tutte è proprio vostro marito. E invece lo trattate come un uomo… ah! Trattatelo con affetto, comprendetelo, perdonatelo, scusatelo, coccolatelo… e sarete coccolate, scusate, comprese, eh? E non fate tragedie…”
Una lezione di amore coniugale magistrale che tocca aspetti veri e umani. Le donne sono le depositarie della felicità, sono molto più attrezzate del marito che, senza pietà, viene definito come un bambinone, il figlio più piccolo. La conseguenza è che alla donna spetta la regìa della felicità perché sono loro la fonte dell’amore.
Il Padre ricorda gli impegni matrimoniali e li riempie di contenuti e di poesia: farsi bella, accogliente, comprensiva: mettere il marito in condizione di desiderare il ritorno a casa e non di temerlo. Con finezza mette in guardia da una cura eccessiva della casa: casa che è in un certo modo l’immagine della padrona e può costituire una tentazione egoistica della donna, mentre la preparazione del cibo è un atto d’amore gratuito, un qualcosa che subito svanisce ma è in riferimento all’altro. Cucinare è lavorare per gli altri. Quanta psicologia pratica! Anche il consiglio di considerare il marito come il figlio più piccolo porta a non trascurare il marito quando arrivano i figli, a non farlo sentire dimenticato. Il Padre non lo dice esplicitamente ma è evidente che le evasioni dal matrimonio nascono dal cercare affetto altrove quando in casa non lo si trova più.
La donna a cui si rivolgeva non era solo la casalinga ma anche quella che lavora fuori casa, San Josemaría ci teneva che la donna fosse impegnata in professioni varie, ma lei continua sempre ad essere la regista dell’affetto familiare.
L’importanza attribuita ai gesti quotidiani della vita di relazione con gli altri è stata un’altra scoperta per me. A dire la verità mia madre era attenta a queste cose e anche mio padre aveva il cuore in casa; a Napoli il rapporto con gli amici e le altre persone era cordiale, ma non avevo scoperto il fondamento cristiano di tutto questo, un fondamento che dava solidità al mio atteggiamento di attenzione agli altri, indipendentemente dagli sbalzi d’umore.
Un’altra scoperta sorprendente è stata la capacità di amare la Chiesa. A causa della mia scarsa formazione religiosa la Chiesa erano i “preti”. Ho avuto sempre rispetto per la figura del papa e anche dei sacerdoti, ma non mi piaceva il giro, l’ambiente clericale. Quell’ambiente che negli anni 50 odorava di chiuso e di politico anche se era saldo nella fede. Poi ho visto come San Josemaría soffriva per la Chiesa negli anni turbolenti successivi al Concilio e ho capito cosa voleva dire l’amore alla Chiesa fondata da Gesù sulla roccia ferma di Pietro: l’insieme delle persone che si nutrono del corpo di Gesù, la Sposa di Cristo, sempre santa anche se gli uomini sono peccatori. Era grazie alla Chiesa se ero stato battezzato e avevo ritrovato la fede. Col passare degli anni la sentivo sempre più come madre, come figura della Madonna perché è lei che ci offre Gesù. E più la vedevo attaccata più l’amavo. Oggi quando mi metto a pregare il primo pensiero va al Papa e alla Chiesa.
In sintesi la figura di San Josemaría è di grande interesse per noi contemporanei. E’ un santo che congiunge la fede dei mistici con le circostanze della nostra vita quotidiana. La sua attività non si è limitata a promuovere scuole, ospedali, attività sociali: è partito dal fondo dell’anima di ciascuno. Ha proposto una rivoluzione seria: riproporre il cristianesimo con la stessa vibrazione dei primi cristiani. Ecco perché le iniziative che prendono spunto dalla sua opera non sono troppo appariscenti ma puntano alla santità personale di ciascuno. E non è poco.
Mi fermo qui perché San Josemaría ha avuto grazie innumerevoli e la sua vita è un pozzo senza fondo. Sicuramente posso dire che ho conosciuto una persona felice: felice in mezzo a tante incomprensioni, calunnie, ostacoli di ogni genere. Eppure si vedeva che era felice e il termometro della sua felicità era un buon umore debordante che rendeva attraente la sua vita di fede.
Una delle critiche che gli vennero mosse quando, da giovane, predicava esercizi spirituali per sacerdoti, era che la sua era una predicazione “di vita” mentre si era abituati a una predicazione “di morte”. E lui era così, parlava in modo piacevole persino della morte: “Dio non agisce come un cacciatore in attesa della più piccola negligenza della preda per colpirla. Dio è come un giardiniere che cura i fiori, li irriga, li protegge; li coglie soltanto quando sono più belli e rigogliosi. Dio prende con sé le anime quando sono mature“. E’ un pensiero molto confortante. Come pure: “No, noi non moriamo! Cambiamo semplicemente casa. Questa è la speranza che arride, per mezzo della fede e dell’amore… una speranza che è certezza. Non si tratta d’altro che di un arrivederci. Noi dovremmo morire salutando così: “arrivederci!”. San Josemaría mi ha insegnato a vivere (ho ancora tanto da imparare) senza paura della vita e senza paura della morte.
Una volta sentii dire da un pedagogista che è importante per il bambino che la mamma canti. Mi parve un’ottima osservazione. Mia madre cantava bene e l’unica volta che mi accorsi che mio padre si stava commuovendo fu una sera in cui mia madre si mise a cantare canzoni napoletane. Una dietro l’altra perché l’una riportava a un’altra: una serata che non dimentico.
San Josemaría cantava, l’ho sentito, e gli piaceva sentir cantare. Una volta, quando avevo da poco conosciuto quell’ambiente, durante un viaggio in macchina sentii cantare simpaticamente uno dei suoi figli spirituali, un uomo maturo, e inconsciamente pensai che un posto dove si cantava così poteva essere anche il mio posto.
L’incontro con San Josemaría ha allargato il mio cuore.
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