di Raffaele Coppolino
Sei stato allievo di Alain Ducasse, dei fratelli Pourcel, di Alfonso Iaccarino, di Pierre Gagnaire, Martin Berasategui, Seji Yamamoto, Arnaud Lallement, Jose’ Andres.
Sicuramente tutte esperienze rilevanti dal punto di vista formativo, ma raccontaci l’aneddoto che più ha caratterizzato e segnato il tuo percorso professionale.
I ricordi che porto nel cuore sono quelli dei due anni al Don Alfonso, hanno rappresentato per me un’esperienza a 360°. Eravamo sempre pieni sia a pranzo che a cena con eventi che si susseguivano giorno per giorno.
In particolare, ricordo un giorno nel quale, avendo un evento di mille persone, io ero in laboratorio a fare mille “Vesuvio di rigatoni” mentre Vincenzo Castaldo (che oltre a segnare il mio percorso è per me un fratello maggiore) era in partita a prepararsi per il servizio. Ad un certo punto ci raggiunge in cucina lo Chef Alfonso e con un limone Amalfitano in mano inizia a raccontarci le particolarità e le peculiarità di quel prodotto eccezionale, era tale l’emozione, che aveva gli occhi che gli luccicavano. Ecco, è in quell’emozione che ho visto il mio futuro e ho detto a me stesso “questo è quello che voglio trasmettere con la mia cucina: l’amore per la mia terra”.
Con la tua cucina difendi la cultura e l’identità del territorio, preservando le usanze e le tradizioni, in sinergia con i produttori. Qual è il modello gastronomico a cui ti ispiri?
La filosofia che perseguo con la mia cucina è racchiusa in questa frase: “l’originalità si riflette nel ritorno alle origini”. L’idea alla base è quella di riuscire a usare ciò che proviene direttamente da allevatori, agricoltori e venditori senza usare intermediari, un po’ come si faceva un tempo, con l’aggiunta di riuscire a trattare il prodotto interamente, senza quasi produrre scarti. Insieme al concetto di “originalità” ho voluto poi abbinare un secondo concetto espressione della mia cucina, quello di “riflessione”. L’obiettivo primario di questo secondo concetto è quello di indagare come la cucina possa diventare il punto di partenza del processo di cambiamento verso un modello di sviluppo sostenibile; come poterla far diventare il catalizzatore del processo culturale per quel determinato modello. Infatti, dopo aver analizzato i rapporti tra prodotto, produzione e consumo rispetto allo sviluppo economico-sociale del territorio è stato necessario capire come valorizzare il prodotto per intero riducendone al minimo lo scarto di produzione; e quindi cosa farne delle bucce delle patate, della pelle del pesce, dell’acqua di cottura delle verdure e così via.
Hai un curriculum incredibile, hai vissuto molte esperienze all’estero. Sei stato al Ritz Carlton di Hong kong al fianco dello chef Pino Lavarra, poi a Osaka in Giappone sempre al Ritz Carlton, in Francia, a Londra con lo chef Ducasse, in Spagna, a Copenaghen al Geranium…
Da questi viaggi nei luoghi della gastronomia mondiale, quali tecniche particolari o ingredienti porti ancora con te e riutilizzi nelle tue creazioni?
Sono sempre stato molto curioso e studioso e da ogni Chef ho cercato di apprendere quanto più ho potuto. Da ognuno di loro ho imparato l’uso di ingredienti particolari e varie tecniche che ho poi elaborato e applicato alla mia cucina.
Nei miei numerosi viaggi ci sono ingredienti che mi hanno entusiasmato molto e che portano con loro dei bei ricordi, come ad esempio il pepe “sansho”. Ero a Tokyo, per una cena a quattro mani con Toshifumi Nakahigashi (uno dei trenta chef del domani, lui come me legato molto alle erbe spontanee), e ricordo che il mattino prima della cena andammo nella foresta a raccogliere gli ingredienti, che poi servimmo la sera stessa a cena, e il ricordo del profumo di quel particolare tipo di pepe fresco non potrò mai dimenticarlo, è impresso nella mia mente.
I principi che cerco di trasmettere e utilizzare nelle mie creazioni sono la memoria, intesa come ricordo che lascia in noi un sapore, e le emozioni che questi provocano in chi assaggia i miei piatti e come questi a loro volta lasciano un’impronta in ognuno di noi. Emozionare associando il sapore ad un ricordo.
Sei executive chef dei Giardini del Fuenti; “Un bellissimo giardino che si sviluppa su terrazzamenti tipici del paesaggio della Costiera Amalfitana” e che rientra in un concetto di turismo perfettamente integrato con il contesto e basato sulla sostenibilità ambientale. Come stai contribuendo alla realizzazione di questo ambizioso progetto?
Alla base dell’essere “originali” c’è, per me, il rispetto della diversità: riuscire a proteggere ciò che la natura ci dona applicando il concetto della rotazione delle colture e utilizzando il terreno in tutta la sua biodiversità; tutto questo al solo scopo di rispettare la generosità della natura e ciò che questa ci offre.
Secondo questo principio ho costruito la mise en place dei “Giardini” che vede la sua nascita proprio dagli orti dei “Giardini” stessi.
Ho iniziato ispirandomi ai prodotti che il territorio offriva, e per ognuno di questi ho condotto un’analisi approfondita e dettagliata su come riuscire a “concentrarne il sapore” non disperdendolo. Uno degli elementi principi del menù è l’Acqua e le sollecitazioni sensoriali e di memoria che questa provoca in ognuno di noi. Essendo l’acqua un bene primario ed esauribile, va riutilizzato.
Il 2020 per il settore della ristorazione in particolar modo è stato un anno difficilissimo da superare. Come hai gestito questi mesi e come immagini il futuro della ristorazione?
Tutta la squadra 2020, che sarà presente anche nel 2021, è stata costantemente stimolata alla ricerca dei migliori prodotti che raccontano il territorio. Con il preciso intento di costruire un gruppo coeso e volitivo, anche durante i briefing, tutti i componenti proponevano e partecipavano nella costante condivisione del nostro progetto. Abbiamo la grande fortuna di avere vicino una famiglia con grandi progettualità future, questo non può che stimolarmi a dare sempre di più.
In questo 2020 non mi sono mai fermato mentalmente, ho continuato a ricercare, a studiare, a sperimentare, a provare per fare sempre meglio; modificando l’approccio alla cucina, alla terra e alle sue biodiversità, senza sprecare, osservando e ascoltando, senza voler avere il controllo su tutto, ma cercando di interpretare il percorso naturale delle cose.
Il futuro della ristorazione è ora.
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