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La democrazia ai tempi del digitale

Il colera, come ben noto da secoli, è una terribile malattia che colpisce in particolare coloro che vivono in condizioni disagiate: poco cibo, carenti condizioni igieniche di vita, acqua inquinata, abitazioni sovraffollate, favoriscono il contagio. Da qualche tempo, una decina di anni più o meno, un morbo simile al colera ha colpito la democrazia e si diffonde sempre più in assenza della rimozione delle cause: a scatenare il morbo, in questo caso è il populismo, la latitanza della politica, di quella vera, fatta di programmi e di valori, gestione della cosa pubblica intesa come titolarità di potere e non come servizio. Strumento del contagio è diventata la tecnologia digitale, non più solo mezzo di facile interazione tra individui, al di là dello spazio ma strumento di aggregazione del consento intorno a temi abilmente prescelti e con la precisa funzione della conquista del potere da parte dei signori dello spazio aereo, quali sono ormai diventati le grandi multinazionali economiche e finanziarie, attraverso le piattaforme multimediali.

La facilità della comunicazione tra individui ha determinato tra l’altro un incremento dei traffici: il risultato è stato che mai nella storia dell’uomo vi è stata una tale concentrazione di capitani in pochi centri decisionali che non a caso erano poi quelli che dominano direttamente o indirettamente la comunicazione digitale. Sono individui, sono gruppi, sono talora sistema paese che hanno come loro campo di interesse il mondo intero: le piattaforme digitali hanno preso il posto degli antichi signori del mondo. Ormai possono operare senza nessuna altra regola che non sia la conquista del massimo profitto. Per sostenere la loro azione ed agire indisturbati hanno bisogno di aggregare il consenso su temi ancora (almeno apparentemente) solo commerciali ma che poi molti segnali inducono a ritenere diverranno politici, nel senso più ampio del termine, nella gestione dei gruppi sociali.

Alcuni arrivano ad affermare che le piattaforme digitali sono destinate a divenire gli Stati del futuro: forse è esagerato ritenerlo in quanto arrivati ad un certo livello di sviluppo, ogni piattaforma tenderà più ad eliminare la concorrenza delle altre che alla colonizzazione territoriale del potere acquisito. E’ invece molto probabile che le piattaforme (e non mancano esempi in questo senso nel nostro paese) tendano in previsione di un’aperta scalata al potere politico ad occupare lo spazio un tempo proprio dei partiti politici ed anzi a divenire partiti esse stesse. L’operazione è indubbiamente resa più facile dalla latitanza della politica nel senso proprio, ovvero nel suo radicarsi nella polis, nella società e ciò non solo nel nostro paese ma anche, per fare alcuni esempi, nella Francia di Macron e negli USA di Trump. I partiti politici, la loro identità, i loro valori specifici, sono entrati in crisi non per cause ad essi estranee (la crisi del gollismo in Francia, mani pulite in Italia) ed in altri casi per un mutato sentire sociale (la reazione del conservatorismo della provincia americana ai tentativi di Obama di accollare al capitalismo almeno una parte dei costi dello Stato sociale).

Nel nostro paese e non solo per un errore largamente diffuso tra le forze politiche dopo la fine della seconda guerra mondiale, non è stato compreso che era finita un’epoca. Era finita quella degli Stati autocratici che avevano a loro volta ereditato le teorizzazioni di Hegel dell’inizio del diciannovesimo secolo, utilizzate a fondamento prima dell’assolutismo prussiano e poi via via dalle dittature del ventesimo secolo. Fascisti, stalinisti, nazisti, tutti hanno ritenuto spettasse allo Stato esprimere i valori della società nazionale: l‘individuo avrebbe ritrovato poi la sua libertà (di esistere?) in quanto il regime avrebbe espresso tutti i valori presenti nella comunità nazionale.

Quando i regimi autoritari finirono fortunatamente di esistere non si comprese che era finita anche un’epoca ma che ciò non significava che si ritornasse a quella precedente. Il programma politico della DC fu sostanzialmente quello del vecchio partito popolare della Rerum Novarum di Leone XIII, il PCI non mutò molto rispetto al manifesto di Livorno del 1921, il PSI si ricollegò al partito socialista di Matteotti e di Turati, oscillante tra Marx e Proudhon, i repubblicani ripescarono quanto possibile dal programma liberal democratico dei fratelli Rosselli, i liberali non trovarono di meglio che tentare di rinverdire qualcosa del mondo prefascista che mostrasse ancora una qualche attualità. Nessuno mostrò di fare molto caso a tutto questo. La divisione del mondo in due blocchi, con l’Italia nella sfera di influenza americana, un paese vigilato speciale per la presenza nel Paese del più grande partito comunista dell’Europa Occidentale: poco spazio aveva parlare di programmi politici, quando era in corso la Guerra Fredda.

Crebbe la cultura politica, cadde il muro di Berlino, ebbe termine l’egemonia politica della DC, non più tenuta in vita da un partito comunista di lotta e di governa con esponenti che premevano per un governo di larghe intese ed al tempo stesso picchettavano le fabbriche.

Mani pulite segnò il de profundis di un sistema di governo non più alimentato dalla politica ma caratterizzato solo dalla scalata ad un potere corrotto: la prima denuncia era stata niente meno che del Presidente Cesare Mezzagora (1960) ed Aldo Moro aveva risposto che non bisognava generalizzare troppo…

C’era anche chi aveva intravisto che cosa si andava preparando: ad esempio il tentativo italiano di entrare tra i grandi dell’informatica con la Olivetti fu bruscamente stroncato dopo la morte di Adriano Olivetti, seguita da quella del suo progettista, due morti ancora oggi con molti interrogativi.

Con le elezioni del 1994 scesero in campo i movimenti, Silvio Berlusconi con Forza Italia per primo, fu l’inizio della fine. Seguirono governi senza identità politica, aggregazioni di partiti solo in funzione elettorale, tentativi come quelli di Occhetto di rinnovare i partiti tradizionali: fu un fallimento.

Il banco di prova degli elementi nazionali della finanza e della comunicazione digitale è stata l’Italia, il paese dell’Europa Occidentale con maggiore instabilità politica per un complesso di motivi interni ed internazionali (la presenza della Chiesa Cattolica nella politica italiana, l’importanza dell’Italia nel bacino del Mediterraneo).

Nelle elezioni politiche del 2018 il vero fatto nuovo fu l’utilizzo su larga scala della comunicazione digitale per creare consenso con candidati sconosciuti, senza alcun programma che non fosse la maggioranza relativa nei due rami del parlamento. Fu la dimostrazione che il predominare dei partiti sulla scena politica era finito, ma che allo stesso tempo l’uso disinvolto della comunicazione digitale poteva includere la politica provocandone la desertificazione.

Tutto legittimo, tutto secondo le regole: profittando di spazi vuoti e di nessuna trasparenza nella regolazione degli algoritmi, linea tremolante della distinzione tra verità ed invenzione mirata, slogan facenti presa sull’antiparlamentarismo più becero, adozione di decisioni populistiche rivelatesi poi errate (dal reddito di cittadinanza vantato come atto di governo che metteva fine alla povertà a norme sulla prescrizione dei reati quando in alcune carceri manca ancora l’acqua, secondo le ultime dichiarazioni del Ministro della Giustizia): questo significa politica senza politica, cioè la politica digitale.

La politica è sintesi di istanze sociali diverse, in un quadro di sviluppo civile, culturale ed economico della società: politica è partecipazione, confronto, strumento per aggregazione del consenso su decisioni che tutti interessano. La comunicazione digitale può, ed è naturale che sia, strumento valido di propaganda politico, ma non di decisioni di carattere generale, come pure proposto (vedi proposta di legge presentata alla Camera, di cui primo firmatario è il deputato Fraccaro). Si, No, non partecipazione al voto possono essere strumenti per decisioni semplici, riguardanti gruppi o territori limitati, ad esempio la sorte pubblica o privata della gestione di un servizio comunale, ma non per la politica internazionale, per le decisioni relative alla spesa pubblica, per lo Stato sociale, per la tutela delle libertà fondamentali dei cittadini.

Dobbiamo quindi fare tutto il possibile affinchè il digitale non divenga il colera della democrazia. E’ vero che la regolazione degli algoritmi deve avvenire necessariamente con accordi internazionali, perché le piattaforme digitali non conoscono confini nazionali, ma è anche vero che la legislazione nazionale può porre talune regole, impedire alcuni comportamenti, fissare concetti che impediscano la degenerazione dell’uso dello strumento: ad esempio impedendo il voto a distanza di deputati e senatori, di fatto azzerando ulteriormente il dibattito parlamentare. L’ulteriore avanzata delle multinazionali della multimedialità e della comunicazione, della ricchezza, può segnare la fine della democrazia, profittando della crisi della politica. Fascismo, nazismo e comunismo si affermarono un secolo fa per la crisi della politica. Forse è bene non dimenticarlo.  

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Mario Pacelli

Mario Pacelli è stato docente di Diritto pubblico nell'Università di Roma La Sapienza, per lunghi anni funzionario della Camera dei deputati. Ha scritto numerosi studi di storia parlamentare, tra cui Le radici di Montecitorio (1984), Bella gente (1992), Interno Montecitorio (2000), Il colle più alto (2017). Ha collaborato con il «Corriere della Sera» e «Il Messaggero».

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