Pubblichiamo una lettera di Gianfranco Salomone al Direttore Giampaolo Sodano e la sua risposta.
Caro Giampaolo,
da alcune settimane, mentre tribunali e uffici giudiziari sono rimasti più o meno fermi a causa della pandemia covid 19, c’è un profluvio di notizie non esaltanti sull’amministrazione della giustizia in Italia.
Ecco alcuni titoli di giornale:
Alcune osservazioni.
Primo, sorprende che la campagna di informazione sia condotta prevalentemente dalla stampa cosiddetta di “opposizione”.
Secondo, l’impossibilità dichiarata del presidente della Repubblica ad intervenire d’ufficio.
Terzo, il silenzio delle forze di governo.
Quarto, l’intervento del ministro della Giustizia che ha preannunciato una riforma che avverrà chissà come e quando.
Questa tormentata vicenda fa venire alla mente la vecchia storia del Marchese del Grillo, il quale chiamato in giudizio per una qualche angheria compiuta nei confronti di un povero ebreo, si vide assolto dal tribunale. Il marchese, quello vero, uomo di giustizia e di spirito, fece suonare a morto le campane di tutte le chiese di Roma. A chi gli chiese il perché dell’evento rispose: “Perché è morta la giustizia”.
Quei tempi sono lontani, ma – a leggere i giornali – sembra che la “giustizia” non abbia fatto grandi passi in avanti.
Gianfranco Salomone
Caro Gianfranco,
ci siamo astenuti fino ad oggi dal commentare, com’è nello stile di Moondo, le sconcertanti notizie che ogni giorno, ormai da qualche tempo, arrivano nelle redazioni dei giornali dal Palazzo dei Marescialli, sede del Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di governo della magistratura. La tua lettera è stata quindi come un richiamo alla responsabilità: come organo d’informazione non possiamo ulteriormente pazientare nella speranza che un soprassalto di dignità determini una drastica correzione di rotta da parte di quanti hanno il delicato compito di garantire il buon funzionamento della giustizia nel nostro Paese.
La collocazione della magistratura – intesa come insieme di tutti i magistrati decidenti ed inquirenti – ha una origine molto antica. Già nel 1848, nel Regno del Piemonte al momento in cui venne promulgato quello statuto che divenne poi nel 1862 la legge fondamentale della lega d’Italia, molti magistrati protestarono perché l’art. 68 li rendeva uguali a tutti gli altri dipendenti pubblici, loro che per la maggior parte erano nobili di famiglie molto vicine al Sovrano. Da quel momento non si contano le leggi tutte per regolare l’ordinamento giudiziario, soprattutto per regolare i rapporti tra magistratura e governo, che erano poi quelli tra magistratura e politica. Non mancavano infatti magistrati alla ricerca del consenso da parte del potere politico, necessario per ottenere promozioni, sedi più prestigiose, riconoscimenti che talvolta terminavano con la nomina da parte del Re a Senatore del Regno.
La Costituzione repubblicana intese dare un taglio a tutto questo con le norme relative alla costituzione del consiglio superiore della magistratura, organo di autogoverno del potere giudiziario completamente indipendente dal potere esecutivo e quindi (almeno in teoria) svincolato dalla politica per garantire così la neutralità dei magistrati rispetto alla contingente polemica politica.
Amico mio, potrei chiudere qui la mia risposta constatando che il disegno istituzionale dei padri costituenti è miseramente fallito, da ormai tre decenni assistiamo ad uno sconfinamento del potere giudiziario che ha spesso determinato uno squilibrio tra i poteri dello stato democratico. Ma per questo ho chiesto lumi, per la sua ultradecennale esperienza, al nostro comune amico Mario Pacelli che ci ha risposto: “E’ certamente vero che con la Costituzione repubblicana cambiò il quadro di riferimento ma non poteva cambiare la natura umana. Accanto a magistrati come Salvatore Gianlombardo, a Domenico Peretti Griva, che con la loro azione inflissero duri colpi alle tendenze conservatrici di una magistratura che nel primo periodo repubblicano sembrò a tratti poco propensa alla novità, a Bruno Caccia che pagò con la vita la ferma volontà di processare le Brigate Rosse ed i loro delitti; vi furono, come era naturale accadesse, magistrati più attenti ai propri interessi di carriera, anche a costo di qualche buffetto ai politici. Nel complesso il sistema tenne fino all’inizio degli anni ’90, quando l’indagine “Mani Pulite” che colpì senza mezzi termini la corruzione che si annodava tra le pieghe delle politica portò ad individuare nei magistrati i garanti del sistema democratico. Ciò accentuò la loro autoreferenzialità, dando loro la sensazione di poter condizionare il sistema politico anche per la persistenza connessione di politici e burocrati.
Il Consiglio Superiore della Magistratura ha finito per essere soverchiato da queste tendenze fino a diventare un organismo dominato dalla politica nel senso più deteriore del termine e nettamente al di fori dalla posizione assegnata al Consiglio stesso dalla Costituzione. In questo ultimo periodo la situazione si è aggravata anche per l’incapacità politica di un Ministro privo della autorevolezza necessaria per modificare lo stato di fatto.
Che il Consiglio Superiore della Magistratura sia sempre stato un modello di comportamento lo negò ad esempio a suo tempo il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che in una intervista a Paolo Guzzanti asserì di aver inviato nel 1985 un Generale di Brigata dei Carabinieri con reparto antisommossa in quanto riteneva che con le critiche al Presidente del Consiglio Craxi in occasione della uccisione di Valter Tobagi l’organo di autogoverno dei magistrati avesse travalicato il suo potere, entrando a gamba tesa nel teatrino della politica.
Il nodo del problema, allora come oggi, è la piena consapevolezza da parte di coloro che compongono il Consiglio che i poteri loro attribuiti sono preordinati a garantire l’indipendenza del potere giudiziario da quello politico e non a costituirne una appendice con tutte le conseguenze che ne possono derivare.
Modificare le norme per l’elezione dei suoi componenti non è sufficiente se manca la loro piena consapevolezza che la neutralità del giudice e del CSM è patrimonio di tutti e che non può essere dissipato senza danno per tutti”.
Per concludere, amico mio, voglio aggiungere alle parole che condivido di Pacelli, che evitare che questo avvenga è essenziale per la vita stessa delle istituzioni democratiche, così come è doveroso sottolineare il richiamo del Presidente Mattarella nel momento in cui, nel pieno di una crisi che nasce dalle divisioni e dalle lotte per il potere fra magistrati, invece di dare un segnale di unità il CSM elegge il Procuratore della Repubblica di Perugia con 12 voti su 24 (con 8 voti a favore di altro candidato e 4 astenuti). Un nuovo deprecabile episodio che richiama alla memoria le parole di un altro Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga.
Giampaolo Sodano
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