Fino agli anni 70 dello scorso secolo l’uso di bocconi avvelenati era considerato lecito, in conformità dell’art. 26 Testo Unico sulla caccia n. 799 del 02/08/1967, il quale ne consentiva l’uso unitamente ad altri strumenti, quali lacci, trappole, per la cattura e l’uccisione delle specie selvatiche considerate nocive (lupo, tasso, volpe, lontra ecc.).
Il primo divieto fu introdotto solo nel 1976, con il D.L. 22/11 pubblicato in G.U. n. 325 del 16/12/1976, il quale vietava per l’appunto l’uso di sostanze tossiche e veleni, tagliole, lacci e congegni similari per la cattura della fauna selvatica. Il divieto fu successivamente confermato con l’art. 21 della legge n. 157 del 11/02/1992, che trasformò giuridicamente la fauna selvatica da res nullius a patrimonio indisponibile dello Stato.
Vale la pena ricordare, poi, l’Ordinanza del Ministero della Salute del 14/01/2010, che ha prorogato e rafforzato l’Ordinanza contingibile ed urgente concernente norme sul divieto di utilizzo e di detenzione di esche o bocconi avvelenati del 18/12/2008, così come modificata dall’ordinanza del 19/03/2009, a mente della quale è vietato preparare, miscelare ed abbandonare esche e bocconi avvelenati o contenenti sostanze tossiche o nocive, compresi vetri, plastiche e metalli o materiale esplodente. Il provvedimento vieta anche la detenzione, l’utilizzo e l’abbandono di qualunque preparato che possa causare intossicazione o lesioni in chi lo ingerisce.
Nonostante i divieti introdotti, il fenomeno degli avvelenamenti dolosi è purtroppo negli anni aumentato, colpendo in particolare gli animali domestici e d’affezione. Dopo le prime legislazioni regionali che hanno dettato con maggior vigore tale divieto, è finalmente giunta una legge nazionale, la n. 189/2004, a mente della quale l’uccisione degli animali è reato, con qualunque modalità sia provocata, e la sua disciplina è ora finalmente inserita nel codice penale.
Dunque il veterinario che abbia notizia di un sospetto avvelenamento, ha l’obbligo di segnalarlo al Sindaco del territorio interessato ed al servizio veterinario della Asl territorialmente competente.
Successivamente alla segnalazione il veterinario deve, qualora l’animale sia ancora vivo, effettuare lavanda gastrica ed inviare la stessa (o il vomito, o il boccone o l’esca rinvenuti) presso l’istituto zooprofilattico più vicino, alla ricerca del tossico sospetto; oppure, qualora l’animale sia morto, inviare la carcassa e ogni altro campione utile al medesimo istituto di zooprofilassi.
In entrambi i casi, i campioni devono essere accompagnati da un referto anamnestico o, ancor meglio, da una scheda di segnalazione di sospetto avvelenamento, sì da correttamente indirizzare la ricerca analitica di laboratorio.
Nei casi di avvelenamento, il luogo in cui l’animale viene ritrovato, morto o vivo con sintomatologia sospetta, può non coincidere con la scena del crimine, intendendosi per tale il luogo nel quale l’avvelenamento è avvenuto. Invero, escludendo casi di veleni che provochino morte immediata (stricnina in dose elevate, ad esempio), la maggior parte dei bocconi provoca la morte in un lasso di tempo abbastanza lungo.
Tempo nel quale l’animale che ha ingerito il veleno si sposta alla ricerca di sollievo, magari avvicinandosi a corsi d’acqua per bere, potendo quindi determinare anche casi di avvelenamento c.d. secondario.
Ecco perché l’analisi della scena del crimine nei casi di avvelenamento è assai complicata. Il sopralluogo va condotto con metodo, poiché deve consentire di individuare, raccogliere e campionare quelle che poi diventeranno prove in sede processuale.
Qualora il personale di polizia giudiziaria richieda l’intervento di un veterinario per esaminare la carcassa o i bocconi o le esche sospette, verrà nominato il veterinario ausiliario di polizia giudiziaria, con specifici compiti che verranno dettagliati nell’incarico stesso.
Anche in tali casi, la raccolta dei reperti (carcassa, bocconcini, esche) dovrà avvenire solo successivamente alla loro repertazione fotografica e catalogazione, ivi compresa una dettagliata descrizione del reperto e del luogo nel quale è stato rinvenuto.
Durante l’attività di sopralluogo, il veterinario ausiliario ed il personale di polizia giudiziaria dovranno adottare tutte le procedure idonee alla riduzione del rischio biologico, indossando i dispositivi di protezione individuale (tuta di protezione corpo monouso, guanti protettivi, maschere respiratorie, calzari protettivi, occhiali protettivi), sia per la protezione da sostanze potenzialmente tossiche, sia per evitare fenomeni contaminativi.
La carcassa e gli altri eventuali campioni vanno conferiti nel più breve tempo possibile all’istituto zooprofilattico sperimentale competente per territorio, riportando nella richiesta di esame necroscopico tutte le informazioni utili all’esame (luogo del rinvenimento, segnalazioni di altre morti sospette, specie, razza ed età dell’animale, eventuale presenza di microchip, tempo in cui l’animale è stato visto per l’ultima volta, eventuali sintomi osservati dal proprietario ecc.). Tali informazioni saranno utili per l’elaborazione della diagnosi differenziale da parte dell’anatomopatologo.
Insomma, le tecniche di sopralluogo veterinario costituiscono un contributo irrinunciabile, anche in chiave criminologica oltre che investigativa. Basti pensare che dall’analisi veterinaria della scena criminis correttamente condotta, si potrà ricavare il duplice vantaggio di chiarire le cause della morte violenta dell’animale e di stilare il c.d. criminal profiling, utile all’individuazione dell’autore del reato.
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