L’ascensore sociale rappresenta la possibilità per gli individui dei ceti più bassi di crescere dal punto di vista culturale, economico, sociale fino al livello più elevato corrente nel proprio paese. Per restare in Italia c’è da dire che è un vecchia storia, un glorioso cavallo di battaglia della sinistra italiana, socialista e riformista in primo luogo, sorretta dall’impegno di grandi scrittori, uno per tutti Giovanni Verga con il suo ciclo “I vinti” (dai Malavoglia a Mastro Don Gesualdo, che avrebbe dovuto concludersi con l’on. Scipioni).
Rimasta al palo per tutta la prima metà del secolo scorso, la crescita ha iniziato a manifestarsi nel secondo dopoguerra sotto la spinta di vari fattori interni e internazionali. L’arrivo degli alleati anglo-americani con la loro democrazia e il loro libero vivere ha rotto un sistema di ipocrita accettazione, sostenuto e portato avanti dall’impetuoso processo di sindacalizzazione del mondo del lavoro che ha costretto a rivedere modelli organizzativi tanto familiari quanto di ufficio e di fabbrica.
Primo passo l’accesso di massa alla scuola, l’alfabetizzazione diffusa ha spinto verso l’università migliaia e poi decine di migliaia di ragazze e ragazzi. Un ceto umile che si è fatto a suo modo elite.
Ma, l’ascensore cammina ancora a scarto ridotto come indica uno studio dell’OCSE (2018) riguardante il numero di generazioni necessarie per raggiungere il reddito medio corrente nel loro paese per i bambini nati in famiglie povere. La scala OCSE va da 2 “generazioni” (per la Danimarca) a 11 “generazioni” per la Colombia. Bene la Svezia (con 3 generazioni), la Spagna, la Grecia, il Belgio, il Giappone, i Pasi Bassi (tutti in 4 generazioni). Seguono l’Italia, gli Usa, il Regno Unito, la Corea, la Svizzera e l’Austria (tutti in 5 generazioni). Più lenta la salita in Francia e Germania (in 6 generazioni), mentre sta correndo la Cina (7 generazioni), stenta il Sud Africa (9 generazioni). La media generale Ocse è pari a 4,5 generazioni, che corrisponde più o meno all’arco di un secolo.
Il dato italiano, prossimo alla media, è significativo e consente di dire che nei decenni scorsi è stato fatto un buon cammino. Senonché l’arrampicata è ferma per effetto della crisi che si sta vivendo da diversi anni, ma soprattutto per l’involuzione del sistema industriale. Il processo produttivo si è spostato dai grandi stabilimenti verso una miriade di piccole e medie imprese che riportano il fattore lavoro ad un dimensione semi artigianale, senza l’estro degli artigiani che divennero arti. Si osserva un impoverimento culturale. La riprova sta nella decadenza subita dal movimento sindacale che ha perduto la spinta progressista delle avanguardie studentesche e operaie, rifluendo nella zona spenta dei pensionati.
Gli anziani bistrattati e odiati (ricordate la proposta di Beppe Grillo di togliere loro il voto?) rappresentano tuttavia un asse portante della società nazionale, per il loro numero gli over 65 anni sono poco più di 13 milioni e mezzo, ma posseggono la parte più cospicua della ricchezza nazionale. Secondo il Censis (rapporto Censis-Tendercapital dei giorni scorsi) in 25 anni la ricchezza della terza e quarta età è aumentata del 77%, mentre quella dei trentenni è crollata del 37%.
Gli anziani hanno in mano i cordoni della borsa, sono quelli che dispongono di casa di proprietà, magari anche di una seconda al mare o in montagna, foraggiano figli e nipoti là dove quest’ultimi non arrivano da soli e non accettano lavori giudicati inadeguati al loro grado di formazione, ammesso che ne abbiano.
E’ tempo di riconsiderare la situazione, lanciando una politica per le nuove generazioni fondata su alcune principi elementari ma radicati: una scuola che orienti davvero verso il lavoro, raccordandosi con la realtà del sistema economico produttivo, avviando una politica del credito a vantaggio di giovani che siano in grado di lanciare nuove iniziative, preparando strutture locali (tipo le ZES), a costo amministrativo zero, connesse con scuole e università locali, trasformare il reddito di cittadinanza in reddito da lavoro, immaginare un futuro previdenziale percorribile.
C’è qualcuno che ci crede e, soprattutto, che intende farlo? Si aspettano risposte da governo, politici e sindacalisti. Bando ai cialtroni.
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