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“L’avvocato degli Italiani”, quello vero.

In questi giorni Agnelli avrebbe compiuto cento anni.
Vissuti con una intensità che li fa valere come duecento nostri.
È stato l’italiano più conosciuto all’estero, se si esclude lo showbiz (dove primeggiava anche Pavarotti e primeggia tutt’oggi “re” Giorgio Armani).
In realtà, ripensandoci, non è esatto: in qualche modo il presidente della Fiat ha fatto parte anch’egli del mondo dello spettacolo, non solo involontariamente ma per una regia mediatica molto sofisticata e accorta.
Probabilmente Mario Draghi ha preso oggi il suo posto in termini di notorietà ma certamente non in quanto a glamour.

Era per tutti l’avvocato. Chissà perché. Non aveva certo bisogno di un titolo di studio, che per altro non ha mai praticato.
Per di più i giovani Agnelli non erano come noi umani. Studiavano a casa con i precettori che frequentavano molto più dei loro genitori.
Per noi egli era più uno stile, una “classe” (Marx non c’entra) che una persona.
Si considerava un italoamericano di lusso ma essendo un torinese-newyorkese, in ambo i casi non rappresentava affatto l’identità vera del paese.
Ai nostri occhi egli era la modernità. A cominciare dalla velocità. Una avidità di novità, di emozioni, di curiosità che rischiavano sempre di tradursi in noia, visto che la vita non sempre è in grado di stupirti, divertirti, spiazzarti.
Soprattutto se sei abituato a permetterti il meglio.

Una frenesia di passioni: per i motori, la vela, l’azienda, le relazioni internazionali, il calcio, la Juve, l’arte contemporanea, le donne.
Per la verità, delle donne abbiamo saputo poco. Si diceva che praticamente nessuna, una volta “attenzionata”, sapesse (e potesse) resistergli. Ma si è innamorato di un’unica “signora”, che indossava volentieri lo zebrato.
Una riservatezza tipica del gentiluomo ma anche della “vigilanza” Fiat.

La Fiat, ai tempi d’oro, era uno Stato nello Stato. Quando Gianni Agnelli (che per quasi 40 anni della sua esistenza ha compiuto qualunque imprudenza, goliardia e trasgressione) rischiava una pessima pubblicità, allora interveniva la sicurezza di famiglia e metteva tutto a tacere.
Comunque gli Italiani erano orgogliosi di questo dongiovanni: ricordo l’eccitazione nazionale quando fece da chaperon alla sua amica Jackie (affascinante first lady, non derubricata signora Onassis), in vacanza sulla costiera amalfitana.
Poi c’era la sua “regalità”. Questo tratto aristocratico anche nel fisico, nella postura, nell’inafferrabilità, nella cortesia distaccata.
D’altronde doveva sentire il fascino di quell’ambiente se ha sposato una principessa e se i suoi più stretti collaboratori erano tutti “titolati”.
Cosa avrei dato per assistere ad uno degli incontri tra l’avvocato e la regina Elisabetta (l’unica, degna competizione possibile) che certamente ci saranno stati in quei lunghi anni.

Credo che abbia sentito una precisa e sincera responsabilità sociale, politica e umana verso l’Italia, sia come presidente della più importante azienda nazionale che di Confindustria e -perché no- della Juventus.
Seguiva attentamente la politica, sia internazionale che domestica. Insieme al fratello tentarono di dare un contributo di efficienza, liberalismo, produttività alla amorfa vita parlamentare, egli a favore del partito repubblicano e Umberto della Dc, con scarsi risultati.
Accettò ben volentieri di essere senatore a vita. Credo che si considerasse una sorta di nostro ministro degli Esteri e pare, che a suo tempo, avesse accarezzato l’idea di fare l’ambasciatore a Washington.

Tutto è già stato detto su di lui, tranne che sul tipo di comunicazione praticata.
Non rilasciava interviste ma ogni qualvolta presenziava ad un evento, come se niente fosse lasciava cadere -ai cronisti che lo inseguivano- una frase, una battuta, una considerazione piene di arguzia, ironia, a volte sarcasmo.
Ma non è credibile che, nella bolgia che accompagnava ogni sua apparizione, potesse improvvisare il paragone tra un calciatore e Pinturicchio o la definizione di De Mita come “intellettuale della Magna Grecia”. Come se gli venisse in mente lì per lì.
I commenti geniali sono sempre frutto di preparazione e di ghost writer.
L’obiettivo era mandare dei messaggi ma sdrammatizzando, scherzandoci sopra; nulla di “importante” e di ufficiale, come una gag sfuggita al circolo della vela o al Waldorf Astoria.
Così tutti sapevano cosa pensava la Real Casa (e ne tenevano ben conto) ma nessuno poteva offendersi.

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Gianluca Veronesi

Nato ad Alessandria nel 1950, si laurea in Scienze Politiche, è Consigliere comunale ad Alessandria per tre legislature, Assessore alla cultura ed al teatro, poi Sindaco della città. Dirigente Rai dal 1988 al 2018, anni in cui ricopre vari incarichi:Assistente del Presidente della RAI, Direttore delle Pubbliche relazioni, Presidente di Serra Creativa, Amministratore delegato di Rai Sat. E' stato consigliere dell’istituto dell’autodisciplina Pubblicitaria e del Teatro Regionale Alessandrino.

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