Le strade romane (e, temo, anche altre) sono costellate da manifesti di promozione funeraria basati, al contrario di quanto sinora, su facili effetti comici, giochi di parole inerenti la morte, espressioni curiose e divertenti.
Le agenzie funebri paiono, dunque, decise a rimuovere quel tanto di tetro e “nefasto” che le accompagnava giustificando quei gesti apotropaici che si facevano al passaggio delle loro nere vetture.
Non vi sarebbe nulla di male, dunque. Manifesti e simboli forse un poco sgradevoli se si ha una morte troppo vicina, ma in fondo innocui e talvolta persino divertenti.
Spesso, però, l’innocuo, il flebile, ha una valenza rivelatrice ben maggiore del potente e ben costruito.
Esso è spesso il segnale di qualcosa di talmente profondo che non si osa dire e nemmeno pensare. Affiora in superficie grazie alla sua apparente “non pericolosità”, passa nelle coscienze grazie alla sua facile percepibilità.
Voglio dire che dietro quelle costose affissioni non vi è soltanto la voglia creativa di un nuovo manager che si diverte a sperimentare nuove forme di promozione per la sua azienda.
L’estendersi velocissimo del linguaggio ironico alla maggioranza delle agenzie funebri ci parla di un’altra cosa.
Ci dice che stiamo ancora una volta facendo i conti con l’unica cosa certa della vita, vale a dire la morte.
Il tema è impegnativo, dunque bisogna accostarsi con calma.
A quanto noi sappiamo, la specie umana è l’unica specie esistente sulla Terra ad avere elaborato nei millenni la consapevolezza della necessaria estinzione di ogni individuo ad essa appartenente.
Di questa unicità non possiamo essere davvero sicuri. La deduciamo piuttosto dal fatto che non conosciamo e non capiamo a fondo le altre specie, nemmeno quelle che ci sono più vicine.
Inevitabilmente questa evidenza della ineluttabilità della morte ha comportato l’elaborazione di molte convinzioni accessorie rispetto ad essa.
Non parlo qui di religione o tantomeno di etica. La religiosità e l’etica sopravvivono e preesistono alla evidenza del dato mortuario.
Non si fondano sul fatto che “devi morire” ma trovano altrove la loro collocazione, almeno quando sono sincere e sinceramente vissute.
Al di là di queste aree, la Morte ha assunto nel corso dei millenni e all’interno delle diverse culture, una propria e autonoma dimensione pur modificandosi nel corso del tempo.
In virtù della sua essenza assoluta e inevitabile, la Morte è stata assimilata a “rappresentazione” ultima e sintetica della persona umana che vi si accostava.
Lo stesso concetto di valore e di coraggio le era decisamente subordinato.
Non vi è bisogno di giungere alla mussoliniana espressione “ognuno muore come secondo la sua natura deve morire” per dimostrarlo.
E, del resto, come avrebbe sintetizzato la sua natura l’ex Duce, goffamente travestito da milite tedesco e le borse gonfie di denaro e carte destinate a ricattare i suoi nemici, se avesse potuto vedere la sua morte?
Nella cultura classica la Morte è stata da sempre la veritiera testimone del valore della persona.
Achille sa che morirà sotto le mura troiane, ma non intende rinunciare a quella gloriosa occasione.
Socrate trasforma la morte, facilmente evitabile, nell’ultima grande lezione della sua vita.
E via via, lungo i secoli per arrivare sino a quel 14 aprile di pochi anni fa in cui un giovane italiano, Fabrizio Quattrocchi, sfida i suoi assassini: “Vi faccio vedere come muore un italiano”.
La Morte appare, insomma, come esplicita e voluta manifestazione della propria essenza: che si sia militari o medici, predicatori o esploratori,missionari o qualunque altra cosa la Morte non sembra passaggio di negazione del proprio essere ma, al contrario, di orgogliosa, seppur dolorosa, riaffermazione.
Ciò giustifica e spiega il rispetto non pauroso che la circonda.
Esso si rivolge a chi muore, a questa ultima e definitiva affermazione di esistenza. Poco importa se se ne preveda o meno una rinascita in altra forma: la silenziosa attenzione saluta e onora l’essere umano nella sua completezza.
I sardi mandano via il morto, donandogli la libertà e tenendo per sé il dolore.
I partenopei lo conservano dentro se stessi. Entrambi i popoli lo rispettano.
E, con loro, tutti (direi proprio tutti) i popoli, ognuno con la sua cultura e la sua concezione del mondo.
Ma, allora, perché mai fare i pagliacci in prossimità di tutto questo accumulo di valore e di valori?
Temo che la spiegazione stia in una tendenza semplice quanto drammatica, facile da cogliere ma complessa da spiegare.
Parlo della “vergogna della morte” che vedo avanzare diffusamente e a grandi passi.
Nell’ultimo periodo (Covid regnante) ho spesso sentito ripetere che la nostra Costituzione “garantisce il diritto alla salute”.
Ciò espresso in maniera tale da considerarsi l’ammalarsi (e di conseguenza, il possibile morire) come la negazione di un costituzionale diritto.
Pazzi davvero sarebbero stati i nostri Padri Costituzionali se avessero attribuito allo Stato di poter o dover garantire “il diritto alla salute”.
Nessuna costruzione umana può arrogarsi questa funzione e nessuno può sinceramente pensare di avere ottenuto tale garanzia.
La Repubblica Italiana “tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.”
Vale a dire che opera per difenderla e per rendere le cure necessarie a ciò disponibili a tutti.
Lo spostamento della focale dalla giusta azione di tutela di un bene (la salute) al bene stesso si situa, io credo, all’interno di un percorso collettivo teso, per la prima volta, alla rimozione e cancellazione della sofferenza, del decadimento e della stessa morte.
Si compie così uno straordinario rovesciamento della realtà.
Appare normale il non invecchiare, lo “star benissimo!” esibito, il vitalismo spesso incongruo che non tiene conto di ciò che davvero si fa.
Scompare tra le nebbie l’esistere nonostante, il diritto – dovere di essere ste stessi sino alla fine. Anzi, essa fine viene coperta da un vergognoso velo.
Per questo, inoltre, quando di un morto si è costretti a dire, di lui effettivamente non si parla.
Fateci caso. Nei funerali delle persone comuni, come nelle comunicazioni su morti famosi, prevale sempre il pronome personale “io”.
Chi prende la parola non parla mai a chi non c’è più, ma piuttosto gli ruba frammenti di vita.
Terrorizzato dalla Morte, divenuta inaccettabile condizione della Vita, l’essere umano si rifugia (in perfetta buona fede) nel suo personale essere ancora vivo.
Rimuove quella che gli appare (anche se non lo dirà mai) come una cosa di cui non si deve parlare, oggetto di vergogna, e parla, magari al passato, della sua personale vita, del suo personale dolore, del fatto insomma che è vivo.
Per finire: possiamo davvero stupirci che in questo mutato contesto le agenzie funebri si atteggino a compagnie comiche?
In fondo, cosa c’è di meglio dell’ironia di fronte a quel che non si vuol più vedere e rispettare?
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