L’intervista a Claudio Velardi, pubblicata su Moondo venerdì 16 marzo, contiene molteplici spunti di interesse per chi ha subito da vicino la storia politica del nostro paese nell’ultimo mezzo secolo.
Velardi è stato il portavoce di Massimo D’Alema, quando fu (1998/1999) Presidente del Consiglio dei Ministri, ha vissuto per molti anni dall’interno le vicende del PCI: non è stato (uso il tempo passato in quanto dopo la svolta della Bolognina il PCI non esiste ufficialmente più) un comunista qualsiasi: ha condiviso consapevolmente una ideologia ed una proposta politica come emerge del resto da una attenta lettura delle sue dichiarazioni.
Da esse traspare innanzitutto la consapevolezza di una battaglia politica perduta irrimediabilmente, di una netta frattura con un passato politico destinato ad essere ormai sommerso nel mare dei ricordi, piacevoli o spiacevoli che essi siano.
Tutte le figure di spicco del comunismo italiano del dopoguerra oggi viventi forse non la pensano come Velardi, ma molti elementi di fatto lasciano presumere che sia un modo di vedere diffuso: Massimo D’Alema sembra ormai completamente assorbito dalla produzione del vino nella sua fattoria in Umbria, Marco Minniti è divenuto un dirigente dell’industria pubblica, Valter Veltroni è tornato al vecchio amore per il cinema, con qualche puntata per il giornalismo e l’elenco potrebbe continuare.
Tutto dunque lascia ritenere che ormai la consapevolezza del fallimento, in Italia come un po’ in tutta l’Europa occidentale, dell’ideologia comunista ed il venir meno del consenso dei partiti politici che in qualche modo ad essa si ricollegavano, sia ormai da mettere agli atti. Sarà perché è mutato lo scenario economico e sociale di riferimento con lo sgretolamento di quella classe operaia di cui il comunismo riteneva di essere il più tenace difensore, come anche Velardi sembra ritenere quando afferma che ormai i poteri tradizionali che la sinistra intendeva difendere sono divenuti in realtà “poteri forti”: non sembra però che questa spiegazione sia completamente esauriente in quanto, come egli stesso afferma, sono apparsi all’orizzonte politico e sociali che attendono tutela adeguata.
Non tutto è però così semplice come sembra: la propensione del capitalismo ad accollarsi gli oneri dello stato sociale in cambio di una libertà più ampia di quella attuale, la configurazione di un potere debole dipende ormai dalla sua potenzialità economica, che limita puntualmente la sua incidenza nella gestione della cosa pubblica, ma anche soprattutto il rispetto delle libertà fondamentali della persona, in una democrazia partecipata che garantisca quella cosiddetta uguaglianza di diritti e di doveri sancita dall’art. 3, primo comma, della Costituzione italiana, ciò che la pandemia sta dimostrando con ogni chiarezza non ancora avvenuto (basti pensare alla certamente non encomiabile vicenda delle vaccinazioni).
Lasciamo qui questo discorso più complesso di quanto possa sembrare a prima vista e torniamo alla crisi del comunismo: a mio avviso essa è stata dovuta agli errori della dottrina marxista a proposito dello sviluppo del capitalismo, non tenendo in alcun conto (né d’altra parte Marx, ai suoi tempi, avrebbe potuto farlo) dello sviluppo tecnologico. A ciò si è aggiunto, per quanto riguarda il partito (o i partiti nazionali) l’essere fondata la loro struttura sulla ipotesi rivoluzionaria, come partiti antisistema in funzione di una rivoluzione che ebbe esito positivo solo in Russia e che in altri paesi fu esportata dopo la fine della seconda guerra mondiale, in forza dell’accordo di Yalta tra le potenze vincitrice del conflitto e non per scelta dei popoli direttamente interessati.
In Italia, assegnata alla sfera di influenza americana, fu gioco forza per il segretario del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti accettare con la svolta di Salerno del 1944 il regime parlamentare: gestì al meglio il conflitto immanente in quella adesione e l’essere a capo di un partito di stampo marxista-leninista in parte del quale regnava ancora il mito della rivoluzione proletaria: l’ultimo clamoroso gesto fu l’occupazione della prefettura di Milano (1947) con Pietro secchia che annuncia nell’ufficio del Prefetto al Segretario del Partito avevano conquistato la prefettura di Milano e con Togliatti che gelido risponde che cosa ora volevano farne. Quando le carte sono state scoperte e l’assassinio di Moro, finalizzato proprio ad evitare una pseudo parlamentarizzazione del PCI rese l’ipotesi non più realizzabile concretamente, fu gioco forza per il Partito Comunista tornare alla versione rivoluzionaria, con l’effetto (e la manifestazione di Torino dei dipendenti Fiat, sotto la sapiente orchestrazione dei padroni del vapore, in risposta al picchettaggio dei cancelli di Mirafiori da parte di un gruppo di comunisti, tra cui il Segretario del Partito Enrico Berlinguer) di incentivare la ripresa della destra economica.
E’ indubbio che, come afferma Velardi il PCI si venne a trovare in serie difficoltà interne ma sembra assurdo ritenere che un aiuto potesse venirgli da Craxi in nome di una unità della sinistra, da parte cioè di un uomo politico che già dall’inizio degli anni ’70, quale delegato del PSI all’Internazionale Socialista, aveva assunto posizioni nettamente distinte da quelle comuniste.
A mi avviso è possibile che Craxi abbia per un momento pensato di stringere il PCI in un abbraccio che alla fine si sarebbe rivelato mortale per i comunisti, come era nei progetti di Aldo Moro a favore della Democrazia Cristiana e dell’incontro con il PCI nei governi di solidarietà democratica: è verosimile però che se ebbe un tale pensiero Craxi deve averlo subito scacciato, ben consapevole che i “nanetti” presenti nella segreteria del suo partito avrebbero preso spunto da quella iniziativa per contrastare il segretario, cui tendevano a succedere.
Il PCI affondò perché la vecchia nave aveva troppi difetti di costruzione per poter continuare a galleggiare: quando il Segretario Achille Occhetto, alla vigilia delle elezioni del 1994, volle trasformare il partito in una “gioiosa macchina da guerra” furono in pochi a non capire che finiva in quel momento la storia di un naufragio lungamente annunciato. La falla più grande era la mancanza di un progetto di governo (tale non era il contropiede spesso concordato rispetto alle iniziative democristiane), la prevalenza della parte ideologica su quella politica, la tendenza che Velardi esattamente rileva, di ogni partito a conservare l’assetto politico esistente, per modificarlo solo a condizione che esso significhi acquisire maggior potere nelle istituzioni. E’ quanto fece anche Occhetto, invece di fare una severa autocritica, insieme a tutta la dirigenza del partito, per gli errori politici commessi, preferì mutare il nome del partito con qualche “aggiustatina” verso la socialdemocrazia, ritenendo certo in tal modo di conservare il potere detenuto a livello regionale e locale, dimenticando forse che in democrazia il potere si conquista ogni giorno dimostrando di saperlo usare nell’interesse della collettività e non del partito.
E’ questo, e Velardi lo coglie esattamente, l’errore di affidare e non da oggi la segreteria del PCI a persone che nella migliore delle ipotesi ritengono che sia essenziale per esso conquistare fette di potere e non proporre un programma politico per lo sviluppo della società.
Che fine sia destinata in questo quadro la sinistra italiana è tutto da vedere: il vero problema sarà intercettare la volontà dei cittadini che tengono con il voto e non con le manifestazioni di piazza a determinare la politica nazionale attraverso i partiti, come disposto dall’art. 49 della Costituzione repubblicana.
Ha ragione Velardi quando lascia trasparire il suo scetticismo in proposito, ma sicuramente ricorda che Gramsci parlava del pessimismo dell’intelligenza e dell’ottimismo della volontà.
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