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Nel giornalismo in prima linea su Coronavirus c’è anche la satira. Il posto conquistato da Propaganda Live.

Mi si consentirà di uscire per un momento dal seminato di analisi dei format principali che sono in campo nella grande battaglia dei media attorno alla pandemia: la rete, la tv, i quotidiani (tutti e tre attraversati dall’insostituibilità della fotografia). Ho rimandato tre volte di scriverne (dopo ogni venerdì). Adesso intendo farlo. Scrivendo (dunque è notte) al termine della lunga articolazione di Propaganda Live di venerdì 24 aprile, in seconda e terza serata su La 7.

Ci sono molte ragioni di gratitudine per un programma come Propaganda Live in un periodo come questo, dove il registro comunicativo è amaro. Riconoscimento che, venendo dalla penna e dalla memoria di un milanese, si esprime – si capirà – dopo aver superato alcune storiche barriere.

Barriere che si spiazzano alla svelta, quando si riconosce in un certo genere di satira, quel continuo pendolare dalla realtà alla surrealtà, cioè al verosimile, all’allusivo, al vincolo affettivo per lo stereotipo amato e sbeffeggiato, che appartiene grandemente alla tradizione del cabaret milanese. E che ha solo bisogno di incarnarsi in qualcosa di ben piantato per terra per potere volare un po’ nei cieli sospesi tra il detto e il non detto, ma soprattutto nei cieli di un modo di vivere che appartiene al vissuto di gruppi e generazioni che hanno a che fare con l’anti-divismo della creatività e dello spettacolo.

Ci sarebbe poi la barriera della tv così partigiana, così dichiarata, così schierata. Non esattamente la mia. Difficile tuttavia immaginare la satira senza anima, seduta sul seggiolone dell’arbitro. La scelta di “appartenere” all’idea tafazziana della politica, quindi della sinistra, è vero che ripropone qui e là l’album di famiglia, che appunto non contiene la storia di tutte le famiglie, ma ne fa ingrediente dei comun denominatori valoriali che, in sé, permettono ogni critica, in primis a se stessi.

La storia, la politica, la tragedia degli accadimenti – come quelli che stiamo vivendo – per un po’ sono quinta, spunto, pretesto. Poi solo una comunità di vitelloni di borgata – in verità colti, laureati e organizzati con architettura professionale – finiscono a non sbagliare mai il tono in cui quella quinta diventa scenario, diventa palcoscenico, convivendo con la cifra della satira che non accetterebbe nulla per smentirsi, per piegarsi, per vanificarsi.

E’ un esercizio che potrebbero fare altri satiro-locali italiani, ma che – misto di impunità, amicalità, gavette nelle caves, amore per il nemico, “noi e loro” sempre in campi definiti ma sempre anche trasgrediti – lo spettacolo romano (con scuola formata secolarmente nel massimo della romanità dello spettacolo, cioè il cinema) ha tratti insuperabili.

Diego Bianchi e Marco Dambrosio sono una coppia imbattibile. Attorno, una comitiva di improbabili (ma tutti a posto, nella loro caratterizzazione, figlia di una antica storia di Cinecittà) sono anche figli televisivi di Renzo Arbore, figli teatrali di Gigi Proietti, figli multimediali della Rai3 di Angelo Guglielmi, figli dei giornalacci come Cuore e il Male, figli della cultura allusiva di Totò, nipoti dei ragazzi trasteverini che quando arrivò a Roma lo spettacolo del secolo – le Olimpiadi del 1960 – rifacevano il nome agli atleti di tutto il mondo quando quel nome, cambiando una lettera o una consonante, diventava un pernacchio dialettale italianizzato: Chikazè, Mikateladogratis, Furgoncin, Mocumescu, eccetera.

Insomma sono un copione semisecolare multimediale. Con mestieri ben imparati. Quello di Marco Dambrosio, in arte Makkox, il compagno perfetto delle gite scolastiche in cui prima di trovare un angolino per azzardare un bacetto i ragazzi avevano bisogno di ridere a crepapelle. Zoro (nato a Roma appena dopo il ’68 e laureato alla Sapienza con Domenico Fisichella), scappa ogni minuto dalla sua cultura politologica, dal potersi mettere una cravatta e diventare un notista politico di prim’ordine. Si rifugia nelle t-shirt da guitto del Testaccio e prolunga in eterno il suo giovanilismo, attraverso format originali di giornalismo.  E’ “al limite” da una decina di anni. Per cui finirà per invecchiare scappando abilmente da ciò e da chi avrebbe potuto essere nella vita.

Tutto il resto lo abbiamo già visto nella tv divertente e innovativa di Rai2 e poi di Rai3 tra gli anni ’70 e ‘80. Ma di nuovo c’è l’idea di prendere di mira la “cultura” politica propagandistica della nostra democrazia.

Una grande idea che pochi hanno osato trattare. Non le generazioni precedenti che hanno pensato di dividere il ‘900 nella prima metà dominata dalle culture della propaganda e nella seconda metà dominata dalle culture della partecipazione (con la ciliegina del ’68 e di Woodstock).

Questi ragazzi arrivati sull’onda veloce di internet ci hanno messo poco a capire che le due stagioni si erano rimescolate nelle democrazie occidentali. E che la cosa più civile da fare era di mostrare soprattutto ai ragazzi che la commistione era ed è in atto, che non si cresce senza coglierla criticamente, che non si diventa classe dirigente se non provando a separarne di nuovo i destini. Innanzi tutto mostrando beffardamente il suo contenuto. La satira, ci piaccia o no, è una barricata nel costruire il ruolo dei media come “guardiano della democrazia”.

Insomma dopo un’altra generazione che tra gli anni ‘70 e ‘80 ha scoperto nei nuovi media (allora la tv) la possibilità di fare politica passando attraverso la conoscenza e la trasformazione della comunicazione, ecco una nuova generazione che fa più o meno la stessa avventura, centrandola sulla rete.

Questa cornice riesce a digerire Coronavirus, risputandone tutti i coinvolgimenti, nella politica, nel giornalismo, nella rete, nel cinismo e soprattutto nella sprovvedutezza del potere.

Questa parte di critica – sorridente e spietata – è da antologia. Ha il suo posto nel giornalismo che decifra le umiliazioni e le arroganze dell’epidemia. Ha il suo senso senza togliere un grammo alla drammaticità del tempo che raccontano. Marco Damilano rimette in riga la lettura delle cose con un giornalismo veltroniano, sentimento e baricentro (che si rifà a Sergio Zavoli). Andrea Pennacchi dimostra che qualunque identità locale, purché temperata nel buon vino italiano, può reggere la sfida narrativa della satira etica. Degli altri non ricordo i nomi, ma hanno tutti il loro posto, come la banda Arbore, orchestrina di livello compresa. Ma mentre Arbore aveva il compito di alleggerire la severità del tempo, PL ha il compito di dar voce alla componente meno stupida della generazione che non si arrende al populismo.

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Stefano Rolando

Stefano Rolando è nato a Milano nel 1948, dove si è laureato in Scienze Politiche e specializzato alla Scuola di direzione aziendale della Bocconi. Tra vita e lavoro si è da sempre articolato tra Milano e Roma. E' professore universitario, di ruolo dal 2001 all’Università IULM di Milano dopo essere stato dirigente alla Rai e all'Olivetti; direttore generale dell'Istituto Luce, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Consiglio Regionale della Lombardia. Insegna Comunicazione pubblica e politica e Public Branding. Ha scritto molti libri sia su media e comunicazione che di storia, politica e questioni identitarie. Da giovanissimo è stato segretario dei giovani repubblicani a Milano, poi ha partecipato al nuovo corso socialista tra anni settanta e ottanta. Poi a lungo non appartenente. Più di recente ha lavorato sul civismo progressista (Milano e Lombardia) e su un progetto politico post-azionista in relazione al quale è parte della direzione nazionale di Più Europa.

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