di Mauro Mancini. Con Alessandro Gassmann, Sara Serraiocco, Luka Zunic, Lorenzo Buonora, Cosimo Fusco Italia, Polonia 2020
Il medico Simone Segre (Gassmann), uomo solitario e incupito, sta facendo canottaggio quando sente il rumore di un incidente. In una macchina semidistrutta c’è un uomo (Maurizio Zacchigna) gravemente ferito; lui chiama il pronto soccorso e si sfila la cintura per frenarne l’emorragia ma gli vede, tatuati sul petto e sul braccio, simboli nazisti, rabbiosamente si rimette la cinghia; all’arrivo dell’ambulanza l’uomo è morto e lui comunica di non aver potuto fare niente per salvarlo.
Simone torna a casa in preda a violenta angoscia e, qualche giorno dopo, assiste da lontano al funerale dell’infortunato; ci sono i suoi ex-camerati e i tre figli: Marica (Serraiocco), Marcello (Zunic) e il piccolo Paolo (Buonora). Il più grande ha chiaramente seguito le orme del padre ed è un naziskin, mentre la sorella, assennata e rassegnata, ha lasciato un buon lavoro a Roma per aiutare i fratelli, in particolare Paolo che mostra buona predisposizione allo studio e una bella manualità. Il giorno dopo Simone segue Marica e vede che lascia in giro dei volantini con i quali si offre come colf a ore; ne prende una striscia e dopo aver licenziato la donna (Lucka Pockaj) che lavorava in casa sua, offre il posto alla ragazza.
Intanto si deve occupare della casa ereditata dal padre (Fusco), un medico che, internato in un campo di concentramento, si era dovuto arrangiare per sopravvivere a curare i denti degli ufficiali nazisti. La casa è sommersa di paccottiglia ed è sorvegliata da un rabbioso cane pastore e tutto questo non fa che acuire il suo risentimento per il genitore con il quale non era in rapporti da anni prima che morisse. Marcello, frugando nella borsa della sorella, scopre che lavora per un “giudìo” e, dopo aver tentato invano di dissuaderla, va all’imbarcadero nel quale Simone sta tornando con la canoa e, di nuovo inutilmente, lo minaccia.
Segre aggiunge una gratifica al salario di Marica ma lei, diffidente (è pur sempre in casa di un uomo solo), gliela restituisce. Il medico è sempre più confuso ed irritabile, tanto che in auto con un collega (Paolo Giovannucci) scaccia con rabbia un lavavetri. Una sera Marcello propone al suo amico Dario (Gabriele Sangricoli) e a un altro loro camerata, anziché un “bangla-tour” (il pestaggio di qualche immigrato), di andare a picchiare il “giudìo”; lo colgono solo in strada e lo picchiano; lui va al commissariato per sporgere denuncia ma, all’ultimo minuto, torna indietro. Intanto Marica e Marcello vengono contattati dal caporione neofascista Rocco (Lorenzo Acquaviva), spietato usuraio che chiede, minacciandoli, la restituzione entro una settimana di 12.000 euro a fronte di 3.000 euro prestati al padre.
Tra Simone – che ha portato la ragazza in casa del padre (dove il cane si sta acquetando), chiedendole di ripulirla dopo che i traslocatori la avranno liberata – e Marica sta nascendo un sentimento ma quando si baciano, lui si scosta dicendole di non potere. Marcello va da Rocco con i pochi soldi che lui e la sorella hanno raccolto ma questi lo scaccia sprezzante al che lui gli dà una coltellata; l’altro, pur colpito mortalmente, estrae un revolver e gli spara. Il ragazzo, ferito e spaventato, non trova altra soluzione che andare da Segre. Questi lo cura e, insieme alla sorella lo accudisce. La vicenda ha un epilogo malinconico ma pacificato, dove ciascuno dei personaggi trova uno spazio per ricominciare, affrontando il peso di antichi e recenti rimorsi e rimpianti.
Il film era quest’anno a Venezia, unico italiano nella selezione della Settimana Internazionale della Critica, ed ha fatto vincere a Gassmann il Premio Pasinetti e all’esordiente Zunic il Nuovolmaie Talent Award. Premi più che meritati: il giovane attore ha dato una gran prova in un ruolo a costante rischio di cliché e Gassmann – pur, forse, un po’ sovraesposto – ha retto la prova con bella intensità e – da professionista di solida scuola – pregevole generosità, lasciando i giusti spazi ai giovani compagni di scena e valorizzandoli (un po’ del merito del premio a Zunic possiamo dire sia anche suo).
Non odiare è, peraltro, un ottimo esordio: Mauro Mancini, dopo aver firmato nel 2009 un episodio del collettivo Feibum – Il film, ha scelto questa storia complessa e con mille rischi di retorica e ha dato prova di saperla gestire con sapienza e con la risoluta volontà di non cedere a scorciatoie ammiccanti; l’unico difetto (perdonabile per un così difficile esordio) sta, paradossalmente, in un suo pregio: le location triestine del film sono splendide e inattese e – come succede quando le si sceglie con talento – contribuiscono efficacemente al racconto ma, talora, il regista sembra essere sovrastato dal fascino dei luoghi e vi sofferma l’azione un po’ più del necessario. Nel complesso, comunque, (e qui mi fido del giudizio di amici che, a differenza di me, erano a Venezia) credo proprio che questo sia il miglior film italiano presentato all’ultima Biennale.
Nel vederlo ho pensato – e non sono stato il solo – ad un altro sorprendente film di ambientazione ideale simile, American History X: in Non odiare c’è la stessa volontà di “capire” artisticamente, senza appesantimenti sociologici od ideologici ma – pur mantenendo la doverosa distanza da un mondo squallidamente violento – con l’empatia di chi sa restituire a chi guarda “persone” dolenti e non stereotipi.
Una parola va spesa poi per la qualità produttiva del film: la Movimento Film di Mario Mazzarotto ha, come spesso fa, dato al film tutto quello che serviva – di lavoro e di mezzi – per rendere così esteticamente efficace un’opera prima. Nel nostro cinema, da molto tempo ormai, è un comportamento sempre più raro e va sottolineato perché è la sola premessa perché un indubbio talento narrativo possa venir fuori. Non dimentichiamo mai che, nel cinema, l’uso intelligente dei soldi è creativo e decisivo al pari della ispirazione artistica degli autori e degli interpreti.
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