Ho svolto ieri la mia prima lezione a distanza, dopo una settimana di sospensioni della didattica in tutte le università italiane, settimana spesa a recuperare il ritardo organizzativo del nostro approccio al distance learning. Abbiamo recuperato, è stato più facile del previsto e tutto è andato liscio.
350 studenti da remoto, a casa loro, in un giorno in cui lo “stare a casa” non era più del tutto una scelta volontaria ma un pressante invito governativo maturato attraverso due decreti legge che hanno – possiamo dirlo oggi a valle del terzo decreto consecutivo – compiuto una forte stretta nella riduzione al minimo dei contatti interpersonali di tutti i cittadini italiani.
Questa dimensione costrittiva è ora fondata sulla ragionevole condivisione dei giovani di non trovarsi ad essere i nuovi “untori”, cioè i portatori magari sani del virus a causa della loro facile esposizione al maleficio vagante. Ma anche sulla condivisione dei meno giovani segnati ormai, con le loro rispettive classi di età, come prevalenti destinatari della missione letale del virus stesso.
Questa infatti la distribuzione anagrafica dei decessi: il 2,8% è nella fascia di età tra i 50 e i 59 anni; l’8,4% nella fascia tra i 60 e i 69; il 32,43% tra i 70 e i 79; il 42,2 % tra gli 80 e gli 89; il 14,1% oltre i 90.
Insomma un nuovo patto generazionale viene costruito all’opposto di quanto fin qui predicato, auspicando finora la mutua frequentazione. Ora, invece, auspicando la mutua distanza. Ma al tempo stesso la mutua solidarietà.
Diciamo che ieri – raccontando queste cose a una ampia platea lontana da me di circa mezzo secolo – c’era qualcosa di nuovo e di insolito. Forse mai davvero accaduto dai tempi della seconda guerra mondiale. L’ombra nera della morte e quella grigio piombo del tempo indefinito attorno a un rapporto che da anni è all’insegna di una perenne esorcizzazione del peggio, comunque di un crescente edonismo, che ha deresponsabilizzato i giovani e illuso noialtri di stare sempre in sella ai cavalli da corsa.
Proprio ieri infatti il mio collega di ateneo Antonio Scurati ha dedicato una pagina del Corriere per parlare – anche lui rivolto ai nostri studenti – di “una prova di maturità per una generazione baciata dalla sorte”.
Ma parlando anche di sé, della generazione intermedia tra la mia e quella degli studenti.
Cioè di chi ha goduto del maggior benessere dell’Occidente tanto da potersi definire una “jeunesse dorée”. La definizione di Scurati è questa: “viandanti solitari finora alla ricerca di una felicità individuale”.
E dunque tutti, insomma, dai baby boomers che hanno da poco lasciato le redini, a coloro che quelle redini non le hanno ancora raccolte, siamo di fronte ad un possibile radicale cambio di paradigma esistenziale. Passare dal precariato del mercato del lavoro – che si vince solo incrementando un sentimento al tempo stesso di apprendimento e di competitività – all’insicurezza attorno alla fondamentale condizione immunitaria. Che per ora si vince solo isolandosi integralmente. Ma che da domani significherà non fare più nel corso della giornate e durante ogni condizione esistenziale al di là del sonno, i gesti in libertà che abbiamo fatto per oltre settanta anni. Da quando cioè non si poteva lasciar filtrare le luci accese dagli scuri di casa causa i bombardamenti o non si poteva portare una ragazza ebrea a ballare o non si poteva dire che il capo del governo era un pirla.
Ho lasciato qualche tema appena abbozzato ad una loro riflessione, che sarà oggetto di una scrittura di esercitazione, come lo è stato il primo dossier costruito insieme all’atto di manifestarsi da noi, oltre che in Corea e in Iran, di un fenomeno di incerta definizione che tuttavia aveva già sigillato nelle case milioni di cinesi. Li trascrivo qui per cronaca di questo dialogo a distanza fisica ma a ravvicinata percezione di cambiamenti di pensiero e di stili di vita.
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