Mater semper certa, pater nunquam. Non è un proverbio o un modo di dire per far insorgere il dubbio sulla fedeltà coniugale, è una espressione giuridica che serve a precisare che la dichiarazione della madre o la prova che tra i due esistesse una relazione non comprova una paternità. La presume, ma non la prova. Allora si capisce perché con tutti i capolavori che l’arte ci ha lasciato sulla maternità, la paternità sia per lo meno poco praticata.
È come se gli artisti, ossessionati dal celebrare una verità, si fossero censurati dal rappresentare quello che è l’archetipo dell’incertezza.
Moondo sfida anche l’arte e pubblica con un’ode al figlio Davide “Alla tua nascita“, scritta da Salvatore Pica.
A scavare bene nella memoria, qualche esempio di paternità prima di questo nel mondo dell’arte l’ho trovato e mi sono divertito a comparare quei padri, un po’ lontani nel tempo, con questo di cui vi lascio la lettura. Prima però bisogna intendersi su cosa sia un padre. Si, perché la madre è colei che ha generato il figlio, ma nella poca iconografia della paternità sembra farla da padrone non l’atto generatore, ma la figura di colui che abbia costruito nel bambino i valori, la forza, la direzione necessaria ad affrontare la vita. Non è detto che sia il padre biologico. Prendiamo per esempio la paternità per eccellenza, la scultura greca, forse di Lisippo, di cui il museo Vaticano ospita una meravigliosa copia romana. Dioniso bambino allevato dal Sileno.
Il padre era nientemeno che il re degli dei: Zeus che, come al solito, si era invaghito di una donna mortale e non aveva avuto nessuna difficoltà a sedurla. Che fortuna essere il re degli dei! La donna, incinta, insistette affinché lui mostrasse tutta la sua potenza di dio. Me lo immagino il tormento: e dai, le mie amiche non ci credono, che figura faccio. Doveva aver spiattellato in giro della sua relazione col potente dei potenti, Zeus, disceso sulla terra apposta per lei, e non voleva passare per una contaballe. Che ti costa! Fallo per me. Allora vuol dire che non mi ami. Dammi una prova per le amiche.
E si che Zeus l’aveva avvisata. Guarda, Semele, che io sono il dio della folgore, non è che se mi mostro sulla terra poi non succede nulla. Non potresti soprassedere, per una volta, sono il padre di tutti gli dei fai tu in modo che ci credano!
Niente. Ci si è messa pure la sorella e Semele rischiava davvero di fare la figura della mitomane.
A tutto si può resistere, ma quando una donna vuole una cosa si sa che tanto la ottiene. E così fu. Zeus mostro il suo essere divino e il fulmine ravvicinato mandò in fumo la casa, incenerì anche la povera Semele, chi è causa del suo mal pianga se stessa, direte voi. Stava per sprofondare negli inferi e rischiava di andarci di mezzo anche il figlio che la donna portava in grembo se Zeus non fosse stato abile e veloce, come un dio, a strappare dal ventre il piccolo feto e cucirlo nella sua coscia affinché la gestazione potesse procedere fino al tempo stabilito.
Alla fine il bambino nacque, la tradizione lo chiama “il dio nato due volte” perché venne al mondo dalla coscia del padre. Poi si sa, Zeus di figli ne aveva tanti, lo lasciò tra gli alberi, tanto il figlio di un dio se la cava sempre. Furono le creature del bosco a prendersi cura di lui, a iniziarlo al vino, al culto, alla danza, al governo dell’irrazionale degli uomini. Il Sileno con gli occhi inteneriti dal piccolo appoggiato al suo trancio pieno di grappoli d’uva fa da padre al bambino, ma fuori dalle leggi della biologia. D’altra parte chi lo dice che tra gli dei dell’Olimpo, in un mondo fuori dal tempo e al di la di ogni dove debbano valere le stesse leggi che noi diamo per scontate sulla nostra terra.
Il mito è così, costruisce situazioni che devono essere credute vere e che possono ripetersi per tutti gli uomini della terra in modo indipendente dal tempo e dallo spazio. È il grande insegnamento del greci che nella loro lingua avevano due parole per significare “racconto”: mythos e historia. L’historia racconta fatti accaduti davvero in un determinato luogo e in un determinato tempo. Questi fatti non è detto che possano ripetersi in un diverso contesto o che possano riproposi nello stesso modo. Il Mythos invece racconta storie fuori dal tempo che il pubblico dovrà ritenere davvero avvenute anche se il contesto possa sembrare immaginario. Proprio questa caratteristica permette di raccontare l’universale, quello che costituisce il bagaglio dei valori fondanti di una società civile. In particolare, i greci, che non erano molto interessati all’individuo in quanto tale, raccontavano quelle cose affinché l’individuo costituisse la spina dorsale di una comunità.
Nel mondo greco esiste una espressione: kata metron ripresa nella Roma latina come est modus in rebus che obbliga alla gestione della misura in tutte le attività. Il vino, per Dioniso, è il contrario della ubriacatura, è l’estasi che non deve mai superare il limite. Quei miti sono il contrario di quello che la cristianità ha poi tramandato come eccessi legati alla necessità di far passare la donna come peccato o come tentazione, la danza come lascivia. Pensate che le seguaci di Dioniso, proprio per evitare molestie o aggressioni da parte dei satiri si addormentavano con delle serpi avvolte sotto le vesti. Ma questo non ce lo hanno tramandato. Il Sileno della paternità sembra lo rammenti al piccolo, ma a noi arriva l’idea che bacco tabacco e venere riducono l’uomo in cenere. Questo succede quando una nuova civiltà voglia affannarsi a dimostrare di essere superiore alla precedente.
Un’altra figura di padre che ha sempre colpito la mia fantasia di bambino è stato Geppetto, si il falegname, il padre di Pinocchio. Anche lui con la biologia ha poco a che fare, se la cavava con sega, pialla e martello, ma la favola trova nel desiderio di paternità la sua evoluzione verso la vita. Crede di sentire una voce, un gemito venire da quel pezzo di legno e nelle favole basta credere le cose perché si avverino. La gioia di Geppetto è la stessa di un parto, ma il primo vero gesto di paternità lo compie quando, in un inverno particolarmente freddo, vende l’unica giacca che possiede per comprare un abbecedario. La scuola è il vero motivo di vita. Il burattino imparerà quello che il padre non conosce. È di nuovo il mito che si intravede, la forza del padre è solo quella di sapere che il figlio sarà migliore di lui. Collodi scriveva a valle della rivoluzione industriale. La macchina a vapore stava condizionando un’epoca. Scrive una favola affinché racconti, codifichi e trasmetta insegnamenti profondi. La storia è la vita stessa. Ci sono i valori intorno ai quali costruire e le minacce e le difficoltà che potrebbero interrompere il cammino del bambino che cresce. Tre capisaldi: la famiglia anche se fatta solo da un padre e una fatina; la scuola, come unica possibilità di crescita sociale e fuga dalla povertà dell’artigianato e la coscienza, che, anche se impersonata da un animaletto antipatico, guida a diventare utili alla comunità. Collodi elenca anche le minacce che un secolo segnato dalla macchina espone al cammino del piccolo Pinocchio: il divertimento sfrenato come fine ultimo dell’esistenza e gli impostori – approfittatori che possono trasformare l’ingenuità in una trappola.
La vicenda è nota, Pinocchio riscatta tutto l’amore del padre riuscendo anche a vincere le leggi della evoluzione perché grazie al potere della fata ed alla sua dedizione al bene farà un salto di specie passando da burattino a bambino. I sacrifici e le traversie di Geppetto sono premiate.
Adesso faccio una ipotesi per assurdo, nella realtà queste cose non succedono, ma pensate al padre se esistesse una società al contrario di quella raccontata da Collodi. Mangiafuoco: guida del paese dei balocchi, diventa presidente del consiglio, Lucignolo è nominato capo dell’intrattenimento di una importante televisione pubblica e il Gatto e la Volpe eletti parlamentari o nominati membri del Cda di una Banca. Pinocchio sarebbe in un vero pericolo. In quel contrario della favola, qualora Pinocchio fosse tornato da scuola con un brutto voto, la reazione di Geppetto sarebbe potuta essere quella di afferrare il suo martello, correre a scuola a spaccare la faccia al professore.
Ma queste cose sono impossibili, almeno nelle favole non succederebbero mai. In ogni caso, per non sbagliare, vigilare, stare attenti a non creare un paese vero, nella historia, che possa avere queste sembianze e funzionare così.
Il terzo padre è Salvatore Pica di cui Moondo ha pubblicato l’ode al figlio. Questa paternità è diversa dal Sileno della statua greca e da Geppetto del romanzo di Collodi, agisce in ambiente terrestre e biologico. Del greco antico usa l’aggettivo bios “che vive”. La sua paternità è più vicina a quella di Geppetto che a quella del Sileno, una fabbrica, biologica, che produce Davide che non ha alcuna sembianza di burattino anche se con le sue prime parole riuscì a provocare lo stesso stupore, un po’ di spavento e commozione. Salvatore però dimostra una ferma assonanza ai modi Dionisiaci, addestra Davide alla immaginazione, giocano con una pallina che non c’è, fantasia? No, assolutamente no, Teatro! Per questo è Dioniso. La pallina loro la vedono, il cameriere non la vede. Sono Mystes, gli iniziati al rito, gli unici che possono vedere e non sono autorizzati a raccontare ciò che hanno visto. La musica, i musei, e alla fine Pinocchio che per Davide è quello di Strawinsky al San Carlo e che chiude il ciclo di questo breve racconto sulla paternità.
Biologico, falegname o tutore, di lui si continua a dire che è sempre incerto. È proprio questa la sua forza, sapere che l’eternità di un rapporto si conquista ogni giorno con la fatica e che è solido solo se riesce a cambiare.
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