E se domani, e sottolineo il se…
all’improvviso, perdessi te..
Avrei perduto il mondo intero
Non solo te.
Caro Direttore, mi sono chiesto molte volte, in questi giorni drammatici, come sarebbero potuti essere i nostri paesi in Europa quando un vaccino avrebbe messo l’uomo; il genere umano, al sicuro da questo Covid 19.
Rileggevo per questo alcune pagine introduttive di “Epidemics and Society: From the Black Death to the Present” di Frank Snowden, professore di storia della medicina a Yale. Il suo
corso sulla storia e l’impatto delle epidemie è presentato come come una necessità significativa per la discussione, da una prospettiva interdisciplinare, dei modi in cui le malattie infettive hanno giocato un ruolo sostanziale nel plasmare le società umane e continuano a rappresentare una minaccia per la loro sopravvivenza. Lo studioso sostiene che le epidemie hanno condizionato lo sviluppo sociale ed hanno segnato il modo di reagire.
Mi è venuto in mente che proprio questo dovremo fare, prima di ogni altra cosa e subito dopo il dolore: reagire, per risorgere e far riemergere la società da come l’epidemia ce la riconsegnerà quando la scienza sarà riuscita a domarla. Oggi, noi Italiani, siamo alle lacrime ed alla conta dei morti, quando guardiamo alle curve di crescita del contagio ci troviamo di fronte ad andamenti esponenziali la cui velocità di crescita sembra essere endemica di questo virus o endemica dello stile di vita comune ai paesi analizzati. Per evitare il vuoto che vedo in molti talk show televisivi, vi dico quello che ho
capito come dato di fatto.
È proprio come essere tutti sulla stessa barca di un mare in tempesta. La sfortuna Italia, essere colpiti tra i primi, è diventata l’esperienza per gli altri, per aiutarli a combattere e vincere “insieme”. Se ho messo l’avverbio tra virgolette è perché mi sembra che sia necessario definire il suo significato e condividerlo, lo trovo usato come sinonimo di supporto reciproco, carità, sostegno e non mi pare abbia lo stesso valore per tutti.
Perdonami, direttore se faccio partire l’avverbio dalla metafisica di Aristotele, ma la nostra civiltà è partita da lì. Il fatto che si tratti di un testo filosofico di 3000 anni fa, nulla toglie alla modernità di questa visione e tra un po’ lo vedremo. Qualsiasi elemento naturale che sia costituito da parti diverse che sono tra loro in relazione reciproca, ha, per il grande Ateniese, un valore che non è rappresentabile dalla somma dei suoi componenti, ma solo
dall’insieme, che ne rappresenta la vita. La parte essenziale di questo ragionamento sta proprio nell’idea che la relazione reciproca tra i componenti elementari sia fondamentale alla definizione delle funzioni, più ancora che la sola descrizione delle caratteristiche intrinseche di ciascun componente. Non basta solo saper catalogare le cose, ma è essenziale definire in che modo le parti interagiscano, sono le relazioni che descrivono il funzionamento e che definiscono lo scopo ultimo, l’utilità, l’obiettivo, il prodotto se volessimo usare un termine moderno. Se potessi dirlo con parole difficili significa passare da una ontologia (l’inventario, esplorazione di ciò che si rivela) alla epistemologia (il modo con cui si conosce, la validità della conoscenza). Questo è il senso di “insieme”, non una corsa a chi sia più importante, ma un contributo alla cosa più importante.
Il concetto di insieme si capisce molto bene in musica se si ascoltassero i singoli spartiti di una orchestra contrapposti alla partitura con i suoi colori, i sostegni, i contrappunti che solo “insieme” possono essere valutati. Su questo aspetto, che è molto meno metafisico di quanto si creda, tornerò tra poco se la pazienza del lettore non mi avrà abbandonato. Credo sinceramente sia nostro compito cominciare a ragionare su quale sarà il paradigma al quale dovremo riferirci dopo il diluvio, o lo scriviamo, insieme, o saremo costretti ad inseguire quello scritto da altri come già è successo in molti momenti della nostra storia. Inoltre, The Day After, oltre a insieme, avremo a che fare con un altro avverbio: come.
Non credo sarà più possibile accendere la televisione o leggere sui giornali di questo o quel politico che ci avverte di quanto sia importante implementare la digitalizzazione del paese senza dirci come solo perché nessuno ha perso tempo a studiarlo. Non sarà tollerabile sentire della importanza di difendere il pianeta dai disequilibri derivanti dal suo sfruttamento senza sapere come fare per intraprendere una azione che riporti un equilibrio più stabile. Sento che alla fine provocherà indignazione popolare il sapere che qualche forza
politica, o forse tutte, vogliano riorganizzare il servizio sanitario nazionale e non sappiano come. Per quanto attiene alla mia esperienza, il come si affronti un lavoro è considerato, in molti settori perdenti, un problema della tecnologia e non un tema filosofico attraverso il quale costruire un progetto strategico che punti all’obiettivo usando le competenze tecnologiche necessarie. Questo è il primo fondamentale errore che è madre di un bel po’ di disgrazie.
Allora cominciamo, cominciamo a discutere partendo da questi due avverbi: insieme e come, che sono tutt’altro che neutrali, disegnano una strategia, dalle parole spingono l’azione verso le cose da fare per soddisfare un bisogno che è l’obiettivo del progetto stesso.
Usiamo la tua rivista come contenitore, mettiamo in un raccoglitore comune i pareri di tutti quelli che vorranno aiutarci a identificare una strada e affidiamo ad una mente aperta e sensibile, per esempio la tua, caro direttore, il compito di sintetizzare una antologia di idee per il day after. Le parole che Giorgio Calabrese scrisse per Mina con le quali ho aperto questo scritto potrebbero anche esserne il titolo: E se domani….e sottolineo “se”.
Si sta discutendo in queste ore su quel che debba essere la formula attraverso la quale finanziare la ricostruzione dei paesi la cui economia uscirà mutilata dalla pandemia. Non entro nella discussione tecnica, ma mi pare importante entrare in quella ideale. Conosco bene il manifesto di Ventotene dove i valori fondanti del sogno europeo sono stati scritti. I paesi del nord Europa si oppongono a qualsiasi condivisione di debito con i paesi dell’Europa cattolica. La stampa lo riporta come un conflitto tra nord e sud, fatto di incomprensioni reciproche mentre siamo solo di fronte ad un passo cruciale della vita politica del nostro continente che è nato su basi storiche diverse, organizzate in stati nazionali molto diversi tra di loro, ma accumunati, tutti, dai valori della cultura occidentale, quella cultura nata dalla spinta della filosofia Greco – Romana che si è poi confluita, dialogando, scontrandosi e cercando posizioni di equilibrio avanzate nel pensiero moderno.
Il pensiero alle nostre longitudini non è mai stato unico: Parmenide non era Platone e Virgilio non ha raccontato la stessa storia di Omero anche se ne ha appreso la lezione. Usiamola, allora la comune origine Greca, krisis significava scelta, prendere una decisione per cambiare rotta. Noi la considerano una parola negativa perché abbiamo imparato che arroccarsi sulle proprie posizioni sia difensivo rispetto all’altro, oggi è solo il modo migliore per rendere massime le conseguenze nefaste del virus. Abbiamo storie diverse e valori comuni, partiamo dai valori e ricostruiamo il significato della politica che in questi anni di forsennata intossicazione liberista abbiamo perso tutti e tutti insieme.
Un ministro Olandese, il cui paese è ampiamente sostenuto dalla erosione del gettito fiscale negli altri paesi d’Europa, dovrebbe imparare a dialogare senza dare lezioni di etica. Le maggiori industrie europee hanno spostato in Olanda la sede legale per godere di un trattamento migliore sui profitti che però vengono fatti in Francia, In Italia, in Germania, in Spagna, in Grecia, in Portogallo e così via. A norma di legge e dentro l’Europa Unita esiste un enclave di elusione fiscale che porta via agli altri paesi una parte dei proventi destinati a servizi pubblici, e a cui è permesso anche pontificare sui comportamenti etici degli altri. Regole fiscali comuni, non si può accettare che Olanda, Malta, Cipro, Lussemburgo vivano consentendo l’evasione fiscale degli altri. Dall’altra parte, anzi dalla stessa, c’è la rigidità della Germania alla quale il debito è stato si in parte cancellato per permetterle la rinascita dalle rovine di due guerre che l’avevano vista protagonista negativa su tutti i fronti (espressione vale sia come metafora che per il suo significato intrinseco). Ma lo hanno fatto e con grande successo, allora dialoghiamo, siamo sicuri che tutti i paesi come sono organizzati sarebbero in grado di ricostruirsi riorganizzandosi come fece la Germania? Siamo sicuri che le oligarchie che hanno generato la crisi si farebbero da parte? Allora dialoghiamo, e non pensiamo che il problema sia economico, storico, politico, o semplicemente organizzativo, il nostro problema principale è di tipo filosofico, manca una visione del mondo da tradurre in paradigma e da articolare in politica, organizzazione, amministrazione, economia come conseguenza di una visione che non c’è. Manca una epistemologia che avvolga ed ispiri. Senza di questa, i paraocchi ci faranno vedere solo il nostro pezzetto di strada e perderemo la possibilità di intercettare per tempo in prossimo virus.
Lo scontro sulla fiscalità segue di poche settimane un altro scontro: quello contro la solita Italia che chiudeva le aziende non per raffreddare il contagio, ma per andare in vacanza. A me non pare che c’entrino i soldi, a me pare che l’avverbio insieme abbia significati che dipendano dalla differenza di etica nei paesi protestanti in relazione alla caritas dell’Umanesimo di casa nostra. Posso sbagliarmi, ma mi pare una conseguenza di quanto scrisse Walter Benjamin, tedesco, in “Capitalismo come religione”. Il Capitalismo è una
religione priva di dogmi e di festività che non offre redenzione, una religione in cui la salvezza non è contemplata e che produce di conseguenza schuld. Ho lasciato schuld come fu scritta perché in tedesco significa sia colpa che debito. Forse qui è la causa di tanti dibattiti inutili. Nomen omen mi verrebbe da dire. Se dico debito, in italiano non dico colpa, dico un dovere. Nelle altre lingue anche. In greco antico la cosa si fa ancora più interessante. Debito si diceva chreos e, nella Odissea, Omero usa questa parola con il significato di “destino comune”. A quei tempi i soldi contavano meno del pensiero e non
voglio nemmeno pensare che l’autore dell’Iliade avesse una lungimiranza tale da aver potuto prevedere gli Eurobond.
Cercate di capire quale sia per tradizione e per cultura l’atteggiamento di chi non ha nemmeno due parole diverse per distinguere una necessità economica da una colpa morale. Lo intuisce un giovane filosofo, tedesco anche lui, Carlo Marx che ne fa un atto di accusa e indica quella caratteristica culturale come possibile strada verso la disumanità; una società avvitata su se stessa ed in preda ad un delirio che non produce etica se non quella del profitto perché arricchirsi è la volontà della grazia di Dio che ha scelto l’uomo
giusto.
L’Umanesimo, la cultura del nostro Rinascimento, imprevedibile ed esplosiva come gli artisti che l’hanno rappresentata è contrapposto alla inflessibilità del dogma. L’uomo privato del libero arbitrio non ha scampo. Le sue azioni non sono scelte autonome, e l’umanità è divisa in chi è predestinato e chi no, riconoscendo i primi dai successi avuti in terra. Questa intuizione è di un altro tedesco: Max Weber che studiò l’etica calvinista come precondizione dello sviluppo del capitalismo. La grazia di Dio è su di me se sono in condizione di fare opere sempre più gradi. Come vedete è sbagliato dire che nei paesi del
nord Europa non diano a insieme lo stesso significato che gli diamo noi, chi ha studiato molta filosofia lo aveva capito e come.
C’è un’altra espressione linguistica che distingue il sud dal nord. L’ospite. Che si vada ospiti o che si riceva un ospite, la parola che noi usiamo è sempre la stessa. Deriva dal latino: hospes, la più sacra delle convenzioni sociali, una sola lettera, in latino distingueva l’ospite dal forestiero con gli stessi diritti di un romano: hostes. Il fatto che noi si usi una sola parola per entrambe le azioni significa che nella nostra cultura Greco-romana, la mutualità dei rapporti è una abitudine patrimonio innato dell’uomo sociale (filoxenia in greco). Non è così nel nord Europa dove le parole sono due e la mutualità delle azioni evidentemente non è contemplata.
Nel VI canto dell’Iliade Diomede e Glauco stanno per iniziare un duello quando scoprono che i loro antenati erano stati ospiti l’uno dell’altro. Il duello si ferma e i due si scambiano le rispettive armature. Omero ci fa notare come il valore economico dei due doni fosse disuguale il che dà al valore simbolico un significato etico per i posteri. Potenza dei cantastorie.
Fugo subito l’idea che io possa sostenere che una etica possa essere superiore all’altra. Nel mondo calvinista, il disastro informatico del modulo INPS non sarebbe mai stato attribuito ad un ente metafisico come l’hacker, ma alla responsabilità organizzativa, all’incompetenza ed alla faciloneria. Il dilettante allo sbaraglio non sa nemmeno quello che dice: 100 accessi al secondo non mandano in tilt un sistema pubblico, i dati anagrafici dei lavoratori vanno protetti. Voi affidereste a queste stesse persone il finanziamento della futura organizzazione? I paesi del nord che critichiamo hanno votato, ed erogato i sussidi ai lavoratori in tre giorni. Provato con un collega italiano che lavora a Berlino.
Detto questo però il fatto che debito significhi un dovere resta un dato di fatto. In Italia scorrazzano indisturbati personaggi votati dal popolo e quindi autorizzati dal popolo che raccontano favole a cui il popolo stesso, o per lo meno la parte che ne condivide i modi, crede. Parlano del danaro pubblico come di un pozzo senza fondo a cui attingere senza regole e senza una destinazione. Me lo devi dare perché è meglio per te, sembrano dire alle
autorità internazionali. Se seguisse questi metodi non si chiamerebbe finanziamento, ma “pizzo”. Occorre costruire una credibilità e non con gli uomini, ma con i fatti. Occorre un progetto di spesa; il day after lo pretende, il prestigio dell’Italia lo pretende. Chi paga ha il diritto di sapere perché lo fa e il diritto lo hanno tutti i bambini che in questo momento stanno bevendo il latte dal seno della mamma, sono loro che pagheranno il debito che stiamo per contrarre. Chi finanzia non tollera evasione fiscale, ma nemmeno immagina di finanziare le campagne elettorali di chi inventa gli 80 euro o il reddito di cittadinanza o la quota 100 invece del riassetto idrogeologico della Sicilia, della ingegneria antisismica dei comuni dell’Appennino della salvaguardia e
del patrimonio culturale da cui trarre i racconti per una identità europea dotata
di solide radici.
Sono questi i giorni per scrivere la partitura per il day after, con la quale presentare l’Italia con il posto che merita tra i grandi compositori Europei, poi gli spartiti dei singoli maestri da studiare e un direttore che ricostruisca i colori con la sua interpretazione. Quando alla partitura ci si ribella la storia finisce come quella raccontata da Federico Fellini nelle ultime scene del suo Prova d’Orchestra. Ricordate? La grande palla meccanica che demolisce i muri e distrugge l’ambiente sonoro? La crisi della politica è una crisi di cultura politica della classe dirigente, lo sappiamo e troppe volte lo abbiamo detto, le menti pensanti, le arti le scienze, il mondo della cultura si è ritirato in casa molto prima della pandemia, ora dobbiamo far uscire i nostri pensieri, oggi, è atto di patriottismo.
Un’altra affermazione che sento spesso è che in fondo, Cristine Lagarde, ha fatto tutto quello che poteva per la rinascita dell’Europa e che i soldi destinati a supportare la spesa pubblica sono tantissimi. Non lo metto in dubbio, a rate e sotto pressione, ma lo ha fatto. Avrei due considerazioni da fare.
Ci sono state in Italia alcune mancanze organizzative: il meccanismo si è inceppato, si è detto. La nostra pubblica amministrazione è inceppata da anni, sforna ed applica grovigli e garbugli di procedure che servono solo a tenere in vita chi le applica e che hanno una funzione di freno, di blocco e di scadimento della qualità dei prodotti immessi sul mercato. Lo vediamo tutti i giorni. Il Presidente De Luca è comparso in televisione pulendosi gli occhiali con mascherine chirurgiche inservibili che, non lo ha detto, due settimane
prima erano state rifiutate dai sanitari Veneti. Riproposte in Campania significa non avere alcuna considerazione della esperienza e vedere la realtà solo attraverso le etichette, i cataloghi, le liste dei fornitori auto costruite senza controllo (l’ontologia di cui parlavo all’inizio) e senza alcuna connessione con l’uso che se ne dovrà fare. Il fatto che lo stesso carico sia stato proposto a due regioni indipendentemente dal primo rifiuto significa che
nello Stato esiste una centrale acquisti fuori controllo. Non basta un Presidente del Consiglio, un Ministro, un Commissari alla Protezione Civile e un Commissario Straordinario, non baserebbero altri venti commissari quando l’etica della responsabilità di ciascun impiegato è fuori della catena del valore. La rabbia dei presidenti di Regione, dei sanitari, degli operatori dello Stato è la rabbia della Pubblica amministrazione che questa volta deve avere a che fare le procedure e gli uomini della Pubblica Amministrazione e
non ne può più.
Tutti i giorni ogni cittadino ha contatti con la sua amministrazione, vorrei che ci sentissimo dire: Cosa le serve? Cosa dobbiamo fare? Quale è la sua finalità? Invece solo: “Compili il modulo, faccia domanda”. L’amministrazione dello stato è un grande protocollo dell’inutile e, badate bene, non ce l’ho affatto con la burocrazia che definisce una struttura essenziale per far funzionare uno stato. Ce l’ho con l’idiozia e con la pratica della fuga dalle responsabilità.
Certo è che i finanziamenti necessari alla ricostruzione devono avere delle garanzie (oggi si dice condizionalità) nei confronti delle nostre generazioni future che dovranno restituirli, abbiamo l’obbligo di ricostruire e riorganizzare un paese mettendo in campo quello che da
mezzo secolo manca. Una politica culturale che non può essere costruisco quello che la gente vuole altrimenti non mi vota. Una politica estera che serve a curare gli interessi nazionali, non capisco come non lo si capisca. Una politica industriale che overdose liberista ha temuto come ogni veleno teme l’antidoto. La pubblica amministrazione è un motore bloccato.
Mettereste voi della benzina in un motore rotto? No. Lo fareste aggiustare prima. Allora
occorre liberarlo dei pezzi inutili che lo ingolfano, ripulirlo dall’erba del parassitismo a costo di fornire uno stipendio affinché parte del personale stia a casa. È lavorando che si blocca il motore. Occorre asservirlo ai bisogni di quello che occorra fare e non asservire il bisogno alla procedura in atto. Tutto questo ha una aggravante micidiale: il day after, che qualcuno dotato di credibilità, non certo io, dovrà spiegare alla pubblica amministrazione l’esistenza dell’ambiente digitale. C’è chi crede che il digitale siano i social che la digitalizzazione del patrimonio culturale sia uno scanner, che la cultura in rete sia intrattenimento. Il day After dovrà chiarire anche questo.
Nel 1996, chi vi scrive stava sperimentando le prime applicazioni digitali e le prime parvenze di rete per conto dell’ENI che aveva intuito il potere della rivoluzione. Andai in America con i miei collaboratori a seguire un convegno ed un seminario della Disney, furono molto chiari, nulla sarò più come prima, avviarono, e con un pragmatismo tipicamente americano dissero: “se avete molti soldi provate a cambiare la testa dei vostri collaboratori, ma se avete pochi soldi cambiate collaboratori prima di fallire“.
Aristotele il digitale non lo conosceva, ma, parafrasando la sua metafisica, sarà possibile spiegare ai nostri funzionari che lo spezzettamento di una attività in componenti elementari e la gestione di queste come task separati funzionava ai tempi di Ford, oggi porta al fallimento anche se è prevista dalla procedura.
L’interdipendenza delle funzioni riporta la progettazione al centro, la preparazione diventa l’istanza principale dove realizzare il massimo di contenimento dei costi. Occorre fare quello che conviene all’obiettivo assumendosene le responsabilità e non produrre moduli perfettamente firmati e timbrati che diventano la finalità dell’unità operativa a trazione pubblica.
Oggi si compete sulla qualità che non può essere respinta dalla burocrazia, disorientata dalla incompetenza e dalla pigrizia dei funzionari. L’ambiente digitale non concepisce fossilizzazioni, non permette ad una procedura inventata per la catena di montaggio di sopravvivere oggi. Non possiamo più permetterci di far sopravvivere le procedure ignorando i prodotti. Sopratutto non si può agire in ambiente digitale ignorando l’etica della responsabilità.
Ciascun impiegato di qualunque catena del valore a qualsiasi livello. Dal day after in poi non potrà più dire: “ho mandato la mail” per giustificarsi scaricando la propria coscienza, agire e non fare, il suo compito sarà solo quello di saper risolvere un problema responsabile di qualsiasi insuccesso e orgoglioso del contrario. Credo che il cammino sarà lungo e difficile, ma sarà il primo passo. Con l’organizzazione dello stato attuale il post fata resurgo resta una chimera e indebitarsi diventa inutile.
Per concludere, caro direttore, potremmo creare una sezione per discutere del giorno dopo e di come riorganizzare i settori. La pandemia ha messo in evidenza le nostre forze: capacità di improvvisazione, creatività, entusiasmo, cuore e le nostre debolezze, l’improvvisazione la necessità di creare in emergenza, il dover vincere con l’entusiasmo e col cuore la paralisi organizzativa.
L’appello della canzone di Mina lo dice chiaramente all’Europa: chiunque perda l’altro ha perduto il mondo intero. Quello che abbiamo capito vorrei poterlo confrontare con altre persone e mi piacerebbe che Moondo potesse esser parte del dibattito. Che ne dici?
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