La pandemia del Covid19 con i suoi drammatici effetti ci ha dato l’ennesima conferma dell’inadeguatezza dell’attuale classe preposta ai vertici della vita pubblica del Paese, non solo politica ma anche dirigente.
Una grande baraonda di norme illeggibili, incomprensibili, tortuose, farraginose, contorte, scritte in pessimo italiano e tra di esse contraddittorie ci ha dato la misura della scarsa qualità delle persone cui è stato affidato (non dal popolo) il governo del Paese.
Le amenità, i conflitti, le discussioni sterili nell’ambito di una pletora di strutture, task force, cabine di regia, unità operative di cosiddetti “esperti”ci hanno confermato che la selezione dei vertici dirigenziali risente degli stessi mali sotto il profilo della competenza e della professionalità.
Certo, i due fenomeni sono strettamente collegati: una classe politica di incompetenti sceglie come può, in base alla propria ignoranza, i cosiddetti “esperti” (nemo dat quod non habet, insegna un brocardo latino: nessuno può dare ciò che non ha).
Inoltre, l’obbligo imposto agli elettori di scegliere i propri rappresentanti in una lista predisposta dai capi-partito e l’uso politico della giustizia che allontana dall’agone elettorale le persone più colte, competenti e professionalmente preparate (lasciandolo nelle mani di giovanotti “di pessime speranze” e dal futuro incerto (senza gli “uffici del collocamento elettorale) sono con cause gravissime da rimuovere prontamente.
Tutto ciò non basta, però, a far comprendere l’attuale degrado culturale.
Anche in questo campo, il male maggiore del Paese dipende dalla nostra Carta fondamentale e segnatamente dal suo articolo 33, nato già malformato e (su quella scia) ancor peggio maltrattato dal Ministro comunista dell’Istruzione, Luigi Berlinguer.
Quella norma fu considerata un “must” cui la stragrande maggioranza dei Costituenti non ritenne di potersi opporre. L’applicazione successiva da parte dei cattolici e dei socialcomunisti ha portato soltanto a esecuzione una sentenza che condannava a morte, sin d’allora, la scuola pubblica e quindi la cultura italiana.
Vediamo come.
Il citato articolo 33 prevedeva che il legislatore ordinario, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, doveva assicurarne la piena libertà e sancire “l’equipollenza del trattamento scolastico privato a quello degli alunni di scuole statali”.
La formulazione astratta di quel principio definito di libertà, calato in una realtà sostanzialmente (anche se non formalmente) confessionale per la rilevante presenza “guelfa” nel Paese, produceva (al di là dell’apparenza “liberale”) il monstrum dei “diplomifici”, in massima parte religiosi e, per le briciole, civili, fonti, entrambi, di consistenti arricchimenti per “promozioni a fine anno,” concesse con criteri “mercantili” (oltre tutto a caro prezzo).
“Bocciato, recupera l’anno con noi” è uno slogan slogan che appare ancora su manifesti a caratteri cubitali, affissi in tutti i luoghi dello Stivale.
In altre parole, la Repubblica italiana, con quella norma prevalentemente “pro-ecclesia” segnava, la fine dell’istruzione laica (si fa per dire, data la stragrande prevalenza cattolica anche tra gli insegnanti della scuola pubblica) impartita, a suo tempo, negli istituti scolastici del Regno d’Italia.
A dire il vero, in Italia, la cultura e la scienza erano sempre state sempre ostacolate dalla presenza nel nostro territorio del Vaticano e dalla supremazia nel settore dell’insegnamento della Chiesa cattolica. Parroci, insegnanti di fedele osservanza hanno sempre fatto da “filtro” per evitare che certe letture aprissero la mente degli individui, inducendoli a pensare con la loro testa.
La società feudale con le sue “chiusure” nel latifondo aveva favorito l’insegnamento meramente ecclesiale nelle poche scuole esistenti.
Purtroppo, anche il Rinascimento aveva visto “cadere sul campo” le teste di personalità come Nicolò Machiavelli (vituperato come cinico e immorale), Giordano Bruno (bruciato vivo a Capo dei Fiori a Roma) Galileo Galilei (finito in prigione per avere affermato una verità scientifica) solo perché avevano avuto tra le mani il “De rerum natura” di Lucrezio e condiviso la dottrina empiristica e monistica di Democrito, Lisippo ed Epicuro (anche quest’ultimo ferocemente denigrato già dagli “scholari” accademici di un impostore questa volta laico dell’umanità).
In Italia, neppure l’eco della Rivoluzione francese aveva cambiato le cose.
In Francia si era capito che l’industrialesimo alle porte imponeva il mutamento del sistema d’insegnamento e una diversa idea di cultura, perché ciò ridondava a vantaggio dell’intera Nazione.
Un più alto livello di istruzione dava i suoi frutti nell’amministrazione della res publicafrancese e nelle attività ad essa connesse. Oggi quel Paese continua a forgiare professionisti preparati anche se questi diventano tecnocrati di alta competenza al servizio del sistema finanziario globalizzato e “denazionalizzato”.
In Italia, non avviene neppure ciò, almeno per grandi numeri. L’istruzione e la cultura languono del tutto.
La vuota ciarla degli italici “politicanti” sulla scuola crea finti, artificiosi paraventi per nascondere il vero problema che è quello della necessità di fare ricorso alla filosofia e alla cultura laica, sperimentale, non ideologica per cancellare dalla nostra Costituzione quell’articolo 33 che ha dato in mano alla Chiesa e a pochi ma potenti speculatori privati senza scrupoli (“con il pelo sullo stomaco” secondo un detto popolare) scuole (prima solo “parificate” e poi, “paritarie” e finanziate dallo Stato) che si sono rivelate dei veri e propri “diplomifici” per “asini” a caro prezzo (pure avendo il sostegno del denaro dei contribuenti!).
Lo smantellamento della scuola pubblica, la scarsa attenzione per l’istruzione impartita in quelle aule e, soprattutto, l’insufficienza dei finanziamenti, sono state solo le conseguenze di quella scelta costituzionale.
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