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Ripartire da Sud. Ripartire dall’Italia

C’è una sensazione vicina alla certezza che emerge nel caos generato dalla pandemia. A dispetto di tutti gli slogan. Continuiamo a ripeterci che nulla sarà più come prima, immaginando l’avvento di un Paese più solidale. Ma la prospettiva reale è che usciremo da questa crisi più ineguali e distanti di prima.

È la direzione che si profila lungo il crinale intrapreso. A parte il rifugio rassicurante dei pareri scientifici, è chiaro che nessuno sa realmente cosa fare. Legittimo. Comprensibile. Siamo in una fase senza precedenti nella storia repubblicana. Ma proprio per questo servirebbero una capacità creativa, un coraggio politico altrettanto inediti. Difficile. Utopico. Per la qualità della classe dirigente. E perché ripercorrere schemi conosciuti è la soluzione più immediata, meno rischiosa per cercare di contenere i costi sociali di una crisi devastante.

Ma quali schemi? Quali sono i costi da contenere? Le fragilità da tutelare? La discussione è aperta. Ed è aperta – ma non abbastanza – anche intorno all’ipotesi di ridurre i trasferimenti in conto capitale verso il Sud paventata dal Dipartimento per la programmazione economica della Presidenza del Consiglio.

Ha ragione Claudio De Vincenti quando, sul Corriere del Mezzogiorno, scrive che il coronavirus ha colpito soprattutto il Nord, ma a pagarne i costi economici è il Paese nella sua interezza. Eppure la risposta allo stato di cose in atto anziché guardare al futuro, volge lo sguardo al passato. La teoria della locomotiva che trascina l’economia italiana è una visione smentita dai dati, che da tempo parlano di un primato di Milano nel quadro di un ridimensionamento complessivo della capacità trainante del Nord. Ma a ispirare le previsioni a pagina 129 e 130 del documento di programmazione sembra essere proprio quel modello.

Il rischio è di scavare un solco ancor più profondo tra Nord e Sud. Sul piano politico e culturale, dando fiato al peggiore populismo neoborbonico e alla demagogia di una destra reazionaria e regressiva. Sul piano sociale e economico, aggravando i costi della crisi fino a renderla insolvibile. I debiti che l’Italia contrarrà nei prossimi mesi, ridurranno drasticamente la capacità dello Stato di intervenire per compensare sperequazioni e disparità. Tra fasce sociali e aree diverse d’Italia. Tagliare le risorse per investimenti, oggi più che mai necessari, vorrebbe dire far scivolare il Mezzogiorno sempre più in basso. E con esso il Paese.

La pandemia ci ha mostrato l’urgenza di una rivoluzione dei modelli fin qui praticati. I grandi centri congestionati si sono rivelati anche i principali vettori di contagio. Quasi una metafora dell’insostenibilità di un certo tipo di urbanizzazione e organizzazione socio-economica.

Una visione creativa di futuro – al di là dello smartworking per ridurre i volumi di traffico attraverso la reclusione domestica dei lavoratori – dovrebbe incidere proprio su questo. Intessendo la trama per uno sviluppo più equilibrato e diffuso del territorio nazionale. Riducendo le differenze interne. Rendendole un elemento di forza e non più di debolezza. Colmando le differenze in termini infrastrutturali, a partire dalla banda larga. Equilibrando l’accesso alla formazione. Sostenendo cultura e ricerca. A Nord come a Sud. Sospingendo le idee di impresa vincenti che fioriscono anche nei borghi più remoti del Mezzogiorno.

Ripartire da Sud? È una semplificazione che non contiene la necessità di ripartire dalla visione unitaria e globale di un Paese complesso. Perché questo accada servono investimenti. Non tagli. Investimenti e vigilanza sul loro corretto utilizzo. E serve dibattito. Non colpevole e distratto silenzio.

Al fianco del governo ci sono fior fior di manager e intellettuali chiamati a compiere un salto epocale. Ma l’impressione è che le loro categorie mentali siano le stesse di quel capitalismo anglosassone oggi messo in discussione dalla potenza della natura. E soprattutto è difficile percepire la reale incidenza della famigerata task force Colao. Il rischio è un fallimento inaccettabile.

Il caos contiene sempre una enorme potenza ed energia creativa. Ma servono forza, visione, coraggio e soprattutto sensibilità per riuscire a orientarvisi e far emergere una creazione compiuta.

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Giulia D'Argenio

Giulia D’Argenio, 33 anni, una laurea in relazioni internazionali e un dottorato in storia dell’Europa. Ha incrociato il giornalismo nel periodo della ricerca e per sei anni ha collaborato con il quotidiano indipendente Orticalab. La cronaca e le inchieste hanno viaggiato di pari passo all’impegno nel volontariato, prima di virare sul mondo degli eventi e della cultura, scoperto negli anni dell’università e nel periodo di collaborazione con la Fondazione Idis di Napoli. Oggi lavora con la Fondazione Francesco Saverio Nitti

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