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Roma. Controluce sul nero.

Siamo nel 1975, forse nel 1976.

Era un sabato pomeriggio.

Un sabato pomeriggio dei miei tredici anni, uno di quelli da passare al Luna Park dell’EUR a fare la fila per l’autoscontro, a sferragliare sulla cremagliera che arrampicava il vagoncino delle montagne russe, a lievitare per la velocità attaccati alle pareti del Rotor o a sfidarsi al punching ball per vedere chi colpiva più forte.

Poteva essere un sabato dei tanti, ma non lo fu.

Lasciato il Luna Park prendemmo l’autobus, l’allora 97, per arrivare alla Stazione Trastevere dove, in un tripudio da tessera intera rete, saremmo scesi e ne avremmo preso un altro che ci avrebbe portato a casa.

Scendemmo, sì, ma invece di andare all’altra fermata attraversammo la strada e andammo dritti verso la pizzeria all’angolo tra viale Trastevere e la Circonvallazione Gianicolense.

Quel sabato pomeriggio non era uno dei tanti; avevamo licenza e paghetta dei genitori per mangiare la nostra prima pizza da soli e rientrare a casa, ma non più tardi delle nove.

Insomma era un sabato da grandi.

Mangiata la pizza senza perdere di vista l’orologio perché il ritardo non era un’opzione praticabile, chiediamo il conto, ognuno mette la propria parte e a quel punto io e un altro ci alziamo per andare a pagare alla cassa, chissà poi perché non al cameriere.

Andiamo noi due perché io a tredici anni avevo praticamente già raggiunto la mia altezza apicale e sembravo molto più grande, mentre l’altro aveva una circonferenza adiposa di tutto rispetto che gli dava una certa importanza.

Direte, tutto normale in fondo.

No, ve l’ho già detto, quello non fu un sabato qualunque.

Si diventa grandi in tanti modi, anche andando a mangiare la pizza da soli.

Si diventa grandi anche quando il signore alla cassa apre il cassetto per darti i soldi del resto e tu, che ci butti un occhio dentro, la vedi lì, messa da una parte, come se quello fosse proprio il posto giusto per lei.

La ricordo bene.

Acciaio lucido, guancette nere.

Con il senno di poi le guancette le aveva cambiate, aveva montato quelle da tiro per garantirsi una migliore presa all’impugnatura.

Con il senno di poi doveva essere una Smith & Wesson Chief a cinque colpi, maneggevole, occultabile, canna corta da due pollici, imprecisa al tiro mirato, letale al tiro ravvicinato, con un fragore allo sparo dissuasivo anche per il classico colpo in aria, un’arma da difesa personale limitata, ma perfetta.

Fu la prima volta che ne vidi una, per mille casi non sarebbe stata l’ultima, e in quel momento fu come se Maurizio Merli o Maurizio Gasparri – per chi non è di quegli anni, il commissario Tanzi di Roma a mano armata, il primo, e Mark il poliziotto il secondo – fossero improvvisamente usciti da schermi del cinema e manifesti e mi si fossero presentati davanti.

Gli anni settanta, a Roma, furono anche questo.

Gli anni dei rapimenti e delle orecchie mozzate, delle rapine nei ristoranti, quando la paranza entrava e si portava via incasso, orologi, gioielli e pellicce, gli anni delle rapine in banca facili come una gita scolastica, gli anni degli strappi all’ordine del giorno, scippi in italiano corrente, gli anni delle corse taroccate al cinodromo e agli ippodromi, gli anni delle spade, le siringhe di eroina che trovavi in ogni angolo di strada perché i buchi è in strada che si facevano ed è per strada che la gente ci rimaneva, mentre le strisce di coca si tiravano nelle case, nei locali, magari nelle bische, bische perché a Roma si giocava, e tanto, e si perdevano automobili, case, negozi, e se ti servivano soldi c’era sempre una cravatta pronta a darti la mano per scendere ancora più giù nell’inferno.

Anni di personaggi folkloristici e perduti, con facce che non nascondevano nulla, con vite che non si negavano nulla, con storie che non avevano bisogno di inventare nulla perché tutto quello che si poteva e non si poteva fare loro lo facevano, gente che ti faceva vedere il rigonfio sotto il maglione perché andare in giro accavallati era un punto d’onore da esibire e non da nascondere, gente che la bajaffa non la usava come deterrente, ma per fare male, perché a Roma si sparava, si è sempre sparato e anche tanto, perché in quegli anni la zaccagnata – la coltellata – non era più quella dei bulli cantati da Gioacchino Belli che non lasciavano mai Santa Smacola – così si chiamava il serramanico lungo e fino che si appuntava sotto il tavolo delle osterie -, negli anni settanta la zaccagnata era da infami.

Fiorivano così soprannomi e leggende di quartiere, storie di piccola malavita quotidiana, come quella di uno che girava dalle mie parti e che noi, ragazzini che andavamo al Luna Park, conoscevamo tutti; si era fatto una patria vacanza a San Vittore, er milanese lo chiamavamo, e delle sue vicende quasi lecite si ricorda ancora l’esito di una questione con il maestro di judo della palestra sotto casa, roba coatta risolta spianandogli la bajaffa con matricola regolarmente abrasa in faccia, adattamento metropolitano del proverbio messicano che Sergio Leone recepisce in Per un pugno di dollari e che saggiamente recita che quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, l’uomo con la pistola è un uomo morto.

Roma, negli anni settanta è stata tutto questo e anche di più e mentre della storia criminale delle grandi bande, delle collusioni e delle connivenze, ne hanno parlato in tanti, ci hanno scritto libri, girato film e fiction, della Roma minuta, del brodo criminale in cui le bande proliferavano e reclutavano soldati, non si è mai detto tantissimo.

La Roma criminale non ha avuto un Giorgio Scerbanenco che ha romanzato in maniera seriale le mille sfaccettature della mala milanese e forse proprio per questo il racconto della Roma criminale è ancora incompiuto, anestetizzato da inchieste ingombranti – dalla Banda della Magliana fino a Mafia Capitale, che per verità giudiziaria mafia poi non era – trasformate in epica, ma che hanno messo un tappo su tutto il resto.

Eppure per capire Roma e le sue trasformazioni non si può non mettere a comune denominatore una memoria fatta di aneddoti, personaggi spiccioli, quotidiano inquinato, sopravvivenza allo stato brado, non si può non mettere il dito nelle pieghe e nelle piaghe, non si possono non toccare nervi ancora scoperti delle storie che l’hanno attraversata.

Storie quasi sempre ambigue che vanno da Gino Girolimoni, il mostro di Roma che mostro non era, alla delinquenza seriale ammantata di Liberazione del Gobbo del Quarticciolo e alla sua banda, dal caso Bellentani al delitto Montesi, dal caso Fenaroli al torbido del marchese Casati Stampa, dalla rapina con omicidio dei fratelli Menegazzo all’omicidio senza motivo di Marta Russo, dal delitto di via Poma a quello dell’Olgiata, senza dimenticare l’omicidio di Pier Paolo Pasolini e la lunga scia di sangue della violenza politica.

Solo esempi, ma che rendono l’idea di quanto la storia criminale di Roma sia sfaccettata e fatta di saldature insospettabili e confini di genere assolutamente labili e incerti tra poteri deviati, infiltrazioni mafiose, malavita organizzata, delinquenza di strada e un chiaroscuro giudiziario, quello che negli anni fece guadagnare alla Procura di Roma la definizione di porto delle nebbie, la stessa nebbia che impediva alla stessa Procura di vedere nello shopping di attività commerciali fatto dalle organizzazioni mafiose, quelle vere, il disegno per una conquista del cuore pulsante di una città che di commercio ha sempre vissuto.

Chiunque conosca Roma, chiunque ne conosca l’anima e i turbamenti, chiunque sappia leggerla tra le righe, sa che la legalità in alcune zone della città è sempre stata solo un’opinione personale, non diversamente da quello che accade da sempre nelle grandi città in Italia e nel mondo.

Qualcosa è cambiato, però, ed è cambiato in peggio.

E non parliamo dei grandi casi criminali, dei fatti che per efferatezza o clamore si guadagnano la notizia di cronaca.

Parliamo di mali silenziosi che erodono la tenuta sociale della città e ne minano l’anima, che alimentano la percezione di insicurezza e creano una microconflittualità diffusa che, non raramente, sfocia poi in episodi che per drammaticità arrivano in prima pagina dei giornali.

Parliamo di piaghe che hanno nomi precisi, che si insinuano nelle famiglie di ogni tipo, che non hanno un perimetro geografico, che non stringono d’assedio quelle che una volta erano le cosiddette borgate malfamate ma la città intera.

Parliamo di droga e parliamo di usura.

Ricostruire Roma, perché Roma di questo oggi ha bisogno, di essere ricostruita e rigenerata, non può non partire anche da qui ed è una partita sulla quale non possono esserci fraintendimenti o tentennamenti, è una partita che si gioca in attacco e non in difesa, è una partita che si gioca riappropriandosi del territorio con uomini e tecnologie e facendo tabula rasa dell’accondiscendenza culturale che ha sostenuto il dilagare di questi fenomeni.

È una partita facile?

Assolutamente no, ma è una partita che non si può non giocare e, come in ogni partita, può esserci anche un campione in campo, ma è la squadra che la vince e l’unica squadra possibile è quella che può far scendere in campo una grande alleanza tra Istituzioni, scuola e forze dell’ordine in primis, e terzo settore, una squadra che trovi nella declinazione del principio di sussidiarietà la via per fare terra bruciata intorno ai disvalori che alimentano il mercato della droga che a sua volta rifornisce denaro fresco all’usura.

A Roma il cravattaro è un vecchio mestiere, i soldi a strozzo continuano a girare vorticosamente, con capitali che dopo aver fruttato con la droga continuano a moltiplicarsi con l’usura che, in un contesto di crisi strutturale come quella che stiamo vivendo, rende fragilissima la tenuta della città.

Il recupero della legalità, è inutile negarlo, passa per un recupero del territorio dove il degrado umano, culturale, sociale ed economico si è sostituito a ogni forma di rispetto verso cose, persone e autorità, e il recupero del territorio può avvenire solo attraverso una rete di monitoraggio fisico, virtuale e logico.

Le Istituzioni devono fare la propria parte in termini di quadro normativo e certezza giudiziaria, di risorse per il ripristino della sicurezza, di contrasto culturale e di supporti all’associazionismo sociale che, spesso, è l’unico interlocutore visibile e possibile per chi si trova morso da droga e usura.

Esiste una buona società, esiste un buon associazionismo che deve essere valorizzato come risorsa a disposizione della rigenerazione sociale e culturale della città, esistono realtà, come Codici ad esempio, che hanno attivato sportelli anti usura, che hanno il coraggio di affiancare le vittime costituendosi parte civile ai processi, e che non possono essere lasciate né sole e né solo alla buona volontà dei singoli.

Roma ha bisogno di visione, di lungimiranza, di fatti concreti e visibili, di recupero culturale della bellezza, di contrasto al degrado, di efficienza e pulizia amministrativa.

Roma ha bisogno di essere una città facile.

Soprattutto, Roma merita qualcosa di più dell’acciaio di un revolver dentro la cassa di un ristorante.

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Marco Panella

Nato a Roma nel 1963, laureato in Scienze Politiche con indirizzo internazionale, si occupa di comunicazione dal 1989 come imprenditore e consulente di aziende ed enti pubblici. Curatore di mostre e festival culturali, esperto di storia del costume italiano ed heritage communication, coniuga all’attività professionale interessi personali che spaziano dalla geopolitica all’etica dell’innovazione. Ha esordito nella narrativa con il romanzo nero Tutto in una notte, edito a settembre 2019 da Robin Edizioni.

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