di Ugo Leone
Napoli, come molte altre grandi (o solamente grosse?) città, ha un duplice problema. Entrambi con radici lontane e profonde: la crescente mancanza di posti di lavoro che è una buca, una voragine, che si allarga nell’economia cittadina e nella cittadina qualità della vita; e un buco esteticamente più visibile nella rete urbana costituita dalle sempre più numerose e ampie buche nelle strade cittadine.
Qua e là cantieri di lavoro – anche questi di antichissima data – per la costruenda linea metropolitana sotterranea che da più di 40 anni scende nelle viscere della città.
Sia le buche sia i cantieri hanno o possono avere riflessi positivi nel tentativo di colmare il buco nell’economia dal quale sono partito e questa riflessione mi porta a evocare due personaggi: John Maynard Keynes e Salvatore Di Giacomo.
Keynes era un famoso economista, ma molti di quelli che lo hanno almeno sentito nominare lo ricordano soprattutto per un motivo: il paradosso dei buchi. Secondo Keynes, in fase di depressione il governo dovrebbe accrescere la propria spesa, anche a costo di creare deficit di bilancio, per compensare il calo della spesa privata. Un modo per farlo è creare lavoro e, di conseguenza, incrementare i consumi. Per creare lavoro, paradossalmente, si potrebbe occupare lavoratori a scavare buche, impegnando, poi, gli stessi lavoratori a riempirle. Seguendo questo principio molto si potrebbe fare in Italia e moltissimo a Napoli dove, peraltro, la strada è già segnata e, in qualche modo si sta anche seguendo. Le buche per esempio. Di caverne più che buche sono piene molte strade della città e non è il caso di farne scavare altre, ma riempire quelle esistenti recherà sicuro vantaggio a qualche gruppo di lavoratori, alle sospensioni delle automobili, all’apparato osteoarticolare di quanti inciampando in quelle buche, finiscono al pronto soccorso ospedaliero già saturo per i ricoveri da Covid-19.
E di Giacomo che c’entra? Di Giacomo, famoso poeta e scrittore, era anche un giornalista; quando, in séguito all’epidemia di colera del 1884, si decise di “sventrare Napoli” inviò alcune corrispondenze sull’argomento a un quotidiano romano. Le scrisse in dialetto napoletano e le intitolò: Se sfraveca. È quello che, per esempio, accade a Napoli almeno dai quaranta anni che prima ricordavo. Con una differenza. Oggi si lavora solo di giorno; allora anche la notte.
«Avite viste mai faticà ‘e notte? – si chiedeva Di Giacomo – Ch’ ’e lenterne e ‘e torce? Ve dico è nu colpirocchio! Appicceno ’o fuoco ch’ ’e legne malamente, se mettono attorno, ch’ ’e gamme stese, ch’ ’mane sotto o palittò vecchio, c’ ’a pipparella mmocca. ’E fravecature vanno, veneno, se fermeno a parlà, sescheno e carrecano e scarrecano ’a pippa». Continua, Di Giacomo, nel descrivere questo colpo d’occhio e conclude: «Che bello quadro che putarrìa fa nu pittore».**
Le ultime tempeste di pioggia e vento che hanno provocato anche mareggiate sulla litoranea via Parthenope, hanno offerto ulteriori occasioni di lavoro. Il mare ha sfravecato l’antico arco borbonico in pietra che sovrastava un vecchio porticciuolo approdo dei “luciani” come si chiamavano i pescatori della vicina Santa Lucia; le abbondanti piogge hanno agevolato l’apertura di un’enorme voragine nel parcheggio dell’Ospedale del mare nel quartiere di Ponticelli. Ce ne sarà di lavoro da fare per ricostituire lo stato originario dei luoghi.
Ecco perché le mie fantasie keynesiane e Digiacomiane: si fabbrica, si sfabbrica, si crea qualche posto di lavoro e qualche servizio di trasporto in più.
* Si sfabbrica e si fabbrica.
** «Avete mai visto lavorare di notte? Con le lanterne e con le torce? Vi dico, è un colpo d’occhio. Accendono il fuoco con legna cattiva, si mettono intorno, con le gambe distese, con le mani sotto il vecchio cappotto, con la pipetta in bocca. I muratori vanno, vengono, si fermano a parlare, scavano, e caricano e scaricano la pipa. Che bel quadro potrebbe farci un pittore».
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