Se, come è probabile (e per quanto mi riguarda auspicabile), Roberto Gualtieri e Stefano Lo Russo vinceranno i ballottaggi a Roma e Torino le due città ne trarranno giovamento ma al tempo stesso ne usciranno rafforzate effettivamente la leadership lettiana del PD e apparentemente anche il suo disegno politico. Questo è fondato sull’idea che uno schieramento dominato dal PD -che aggreghi i “cespugli” sinistrista e populista (quest’ultimo ridotto su scala nazionale a poco più del 5%) e aperto ai “cespugli” intermedi- possa essere competitivo e contendere al centrodestra la vittoria nelle prossime politiche nazionali.
In realtà un’analisi più attenta dei dati mostra che il “successo del centrosinistra” è limitato alle grandi città e più politico (maggiore capacità di scegliere i candidati, costruire alleanze e mobilitare il voto) che elettorale (in termini assoluti il recupero di consensi, anche per la minor partecipazione al voto è molto modesto). Per certi versi la situazione appare simile a quella che si determinò dopo le elezioni amministrative dell’autunno del 1993, quando l’apparente successo della sinistra generò la arrogante presunzione che la strada verso la vittoria alle politiche fosse spianata per la “gioiosa macchina da guerra” occhettiana, che invece fu poi sonoramente sconfitta da Berlusconi.
Permanendo un sistema elettorale prevalentemente maggioritario, un centrodestra che sappia darsi una configurazione (e una leadership) accettabile è ancora oggi in netto vantaggio rispetto a un centrosinistra composto da un PD dominante e da modesti cespugli subordinati.
Il quadro potrebbe cambiare se le forze intermedie (Italia Viva, Azione, +Europa e altri) riuscissero a superare i personalismi e convergessero in una alleanza che, come ha dimostrato l’eccezionale risultato di Carlo Calenda (e della sua lista unica) a Roma, ha un notevolissimo potenziale elettorale.
La nascita di questa aggregazione potrebbe cambiare la natura del centrosinistra spostandolo su un asse di moderno riformismo (facendo leva sulle componenti meno conservatrici presenti dentro il PD) o addirittura aprire lo spazio a una riconfigurazione delle alleanze che sottragga la parte autenticamente liberale del centrodestra alla subordinazione a leadership sovraniste e xenofobe.
Questa possibilità sembra però, almeno a quanto si evince dalle cronache, essere resa difficile dalla scarsa intesa tra le leadership delle diverse forze. Tale difficoltà può essere superata o con un intervento “dall’alto” (la diretta o indiretta discesa in campo politico di Draghi) o con uno “dal basso” (un forte movimento di opinione che spinga in questa direzione). La prima opzione sembra al momento improbabile (confliggendo con l’ipotesi dell’elezione di Draghi a Capo dello Stato) la seconda è possibile ma difficilissima.
Creare un “movimento organizzato” (cioè capace di avere radicamento territoriale e rilevanza mediatica) che non lavori solo per sé stesso (e per le sue leadership) ma per federare altri, in effetti, può sembrare una prospettiva ingenua e utopistica; ma credo sia anche una prospettiva interessante per la parte di opinione pubblica riformista e modernizzatrice, dotata di consapevolezza critica e senso civico, che alla politica chiede primariamente risposte a questioni generali e non prospettive personali e auspica che l’esperienza Draghi non sia solo una parentesi chiusa la quale si torni a un bipolarismo farlocco.
Sarebbe un’esperienza totalmente nuova, ma d’altra parte, come diceva Thomas Jefferson, “se vuoi qualcosa che non hai mai avuto, devi fare qualcosa che non hai mai fatto”.
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