“Suave mari magno turbantibus aequora ventis, e terra magnum alterius spectare (Lucrezio dal “De rerum natura”)
Ovvero
“E’ dolce quando le acque del mare sono turbate, guardare da terra la grande fatica di un naufrago…”
“Naufragio con spettatore” è questa la metafora con cui si apre il primo libro del “De rerum natura”. Lucrezio guarda imperturbabile, al riparo e al sicuro, il travaglio di un naufrago.
È un’immagine possente, riconduce a tanta parte della nostra società contemporanea, che in questi giorni ha assistito, ancora una volta, alla sofferenza di altri 130 disperati in mezzo al mare nell’indifferenza generale.
Lucrezio, però, nel naufrago vedeva l’immagine di un’umanità accecata dal guadagno, dal potere, dal successo da cui lui prendeva razionalmente le distanze. Oggi la sua posizione d’osservazione muterebbe e dal mare osserverebbe la terra in un caos primordiale, devastata da egoismi sfrenati e da sterili individualismi, dominata da una profonda solitudine interiore e da un tragico sentimento della vita.
Come è potuto accadere che 130 uomini siano stati lasciati morire? Come è stato possibile arrivare a tanta insensata crudeltà e a ritenere che 130 uomini potessero essere un problema per l’opulenta Europa? Come si può ritenere che l’indifferenza al dolore altrui, possa servire a risolvere i nostri problemi? Come non riflettere che di tanto dolore siamo tutti corresponsabili? Siamo di fronte ad una vera barbarie, sperimentiamo un arresto di civiltà, peggio, ad un’involuzione, ad una condizione di abbrutimento.
A lume di naso è solo un caso nascere in Europa anziché in Africa, come non c’è alcun merito a nascere in Europa, non c’è nessun demerito a nascere in Africa. Eppure, secondo i Luciferi dei nostri tempi, le merci possono circolare ma gli uomini devono stare fermi nei luoghi dove nascono e se muoiono non ci riguarda. A dover essere salvati, invece, sono gli equilibri politici ed economici, i nostri confini, quelli della patria e della nostra coscienza che non ama essere turbata ma restare tranquilla nell’apatica indifferenza al male, al dolore degli altri.
Di naufragi la letteratura ne ha raccontati tanti .Voglio citare , per esempio quello di Palinuro che la mia terra cilentana ricorda di più , e quello di Enea , di cui ci parla Virgilio
Entrambi profughi fuggirono dalla loro patria alla ricerca di una “Terra Promessa” che per Enea fu il Lazio, per Palinuro l’abisso del mare ma anche una tomba, un cenotafio, che imperituramente ricorda il suo dramma rendendolo immortale.
“Così diventi furia non mortale” farà dire Ungaretti a Palinuro nella sua celebre opera il recitativo di Palinuro.
Quella di Palinuro è la storia che sottende la ricerca che ogni uomo compie nella conquista della propria Terra Promessa ma che per lui divenne un’opportunità mancata, quella di Enea, invece, è la storia di un’opportunità conquistata.
La storia di Enea è la storia di Roma, una storia che dimostra come si possa iniziare con uno straniero per diventare padroni del mondo e come il mondo porti in sé l ‘idea di “mescolanza”.
Una mescolanza da non intendersi come caos, disordine, differenze contrapposte ma come scambio, come incontro, come dialettica costruttiva che migliori e arricchisca anche chi sta al porto, al sicuro da ogni naufragio.
Quando Romolo tracciò il solco che avrebbe delineato i confini di Roma compì una cerimonia singolare: in un fossato posto al centro di quel perimetro e denominato, appunto, Mundus, ciascuno degli abitanti futuri della città, provenienti da luoghi diversi gettò una zolla della propria terra d’origine. La cerimonia che ha in sé qualcosa di sacro, sottolinea l’importanza dei molteplici apporti, necessari per giungere alla grandezza di Roma e il valore della mescolanza.
Sia Enea che Palinuro incarnando l’idea del viaggio e del naufragio generano strutture oppositive costanti:
Spettatore>attore
Estraneità >coinvolgimento
Immobilità >movimento
Sono i due modi di essere al mondo e quindi alla vita, sono le scelte che l’uomo di oggi è chiamato a prendere di fronte al dramma dello straniero, al dramma dell’immigrazione a ciò che può definirsi un vero e proprio esodo biblico , scelte che possono portare all’ascolto e alla scoperta dell’altro per un destino di grandezza o all’indifferenza spesso generata da diffidenza o, nel migliore dei casi, da un forte senso di impotenza. Scelte che possono salvare gli Enea dei nostri giorni o abbandonarli nel maremoto della vita e delle loro fragilità, assistendo immobili, col distacco della lontananza, al quotidiano naufragio della speranza di un mondo più umano.
Nel frattempo il naufragio continua ed è un naufragio di uomini galleggianti in un mare di indifferenza, tra una speranza e una disillusione, tra la vita e la morte, tra un approdo o un affondamento all’interno di un vero e proprio “sonno della coscienza”.
Si è certi che il problema sollevato è complesso anche perché non esula nessuno da prendere in considerazione l’altra faccia della medaglia come la difficoltà dell’integrazione, l’arroganza, i fanatismi religiosi, la diffusa criminalità che per alcuni sarebbe dovuta proprio ad un mancato controllo dei flussi emigratori.
Sicuramente l ‘ALTRO può generare paura ma di questa paura noi dobbiamo prenderci cura. L ‘ALTRO, proprio per la sua alterità, ci obbliga, invece, a rimetterci in discussione, ci chiama ad un confronto a cui non possiamo sottrarci e la paura, se adeguatamente curata, diventa elemento essenziale per costruire relazioni e bloccare ogni forma perniciosa di individualismo IN NOME DI UN MONDO DI MOLTI E DI TUTTI.
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