La giornata della memoria è stata istituita per non dimenticare. Non dimenticare quell’orrore, quell’infamità, quello scempio – persino le parole sfuggono– che è stata la persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti.
“E’ successo, può succedere ancora” scrive Primo Levi. Ha ragione, soprattutto adesso che l’antisemitismo riprende a dilagare (come dimenticare la senatrice Liliana Segre con la scorta o le foto di Anna Frank esibite allo stadio?).
Per l’Italia, grazie a Mussolini – sodale anche in questo con i nazisti – uno dei giorni simbolo è il rastrellamento degli ebrei nel ghetto di Roma. Una pagina buia che però presenta qualche raggio di luce.
Molti “cristiani” romani aiutarono gli ebrei a salvarsi. E, cosa abbastanza sorprendente, alcuni erano addirittura fascisti.
Vogliamo parlarvi di loro, senza avere la pretesa di essere esaustivi e sapendo anche che c’è stato chi su quella persecuzione ha lucrato con la delazione.
Prendiamo per esempio la famiglia Afan de Rivera Costaguti. Il loro palazzo è in piazza Mattei, nel cuore del ghetto. Sono una antichissima famiglia di origine spagnola e di stretta osservanza papalina. Nel vicolo adiacente al palazzo nel XIX secolo fu aperto un passaggio ad arco che conduceva a via della Reginella, quindi fuori dal Ghetto. Da questo accesso, che venne chiuso e riaperto nel 1920, riuscirono a fuggire molti ebrei. Ma non solo. Il marchese Belloso era ufficiale della milizia fascista e aveva fatto la marcia su Roma. Ma quel maledetto 16 ottobre non esita ad aprire le porte del palazzo a 18 membri delle famiglie Di Segni, Fiorentino, Pavoncello e Sermoneta. Li nasconde nelle cantine, nelle soffitte, negli interstizi delle pareti, senza chiedere né soldi (molti lo facevano) né ringraziamenti. Quando si presentano le SS per una perquisizione, li accoglie sull’uscio di casa in divisa intimando loro di andarsene subito, facendosi forza della sua posizione di antica nobiltà e di ufficiale della milizia: lui aveva il diritto di aprire solo a chi aveva invitato e “loro” non erano stati invitati. Sembra incredibile, ma i nazisti se ne andarono. Per questo motivo a lui e la moglie è stato riconosciuto il titolo di Giusti tra le nazioni, massimo riconoscimento dello stato di Israele.
Un altro caso è quello di Ferdinando Natoni, fascista “de fero”, duro e puro. La famiglia Limentani è sua vicina di casa, ma non ha rapporti con lui, anche perché Natoni non ha nessuna simpatia per gli ebrei. Quella tragica mattina i Limentani realizzano in tempo quello che sta succedendo e in fretta si vestono e decidono di dividersi. Tre figlie vengono mandate a casa di un ingegnere con il quale avevano già preso accordi, ma in quella casa non c’è più posto: l’ingegnere ne ospitava troppi. Solo la più piccola riesce ad entrare. Le altre due si ritrovano sole e disperate sulle scale, quando una porta si apre. E’ Natoni che le fa entrare di fretta senza dire una parola. Quando arriva la pattuglia, dice che sono sue figlie, ma i militi rimangono perplessi nel vedere due ragazzine vestite di tutto punto e il resto della famiglia ancora in pigiama. E’ a questo punto che Natoni comincia a urlare e sventolare sotto gli occhi dell’ufficiale nazista la tessera del fascio. I soldati battono in ritirata.
Cosa scatta delle mente di un uomo, fascista convinto e non amico dei “giudii” in un momento dove in un soffio si gioca la vita umana? Forse l’anima e il cuore che ti fanno fare cose giuste se sei onesto. O forse il senso di colpa. Fatto sta che Natoni a quel punto scende in strada deciso a salvare più ebrei possibili. Ma le SS si insospettiscono di brutto e lo arrestano. Solo il suo alto grado nella milizia fascista lo mette al riparo e gli consente di tornare a casa. A fine guerra la famiglia Limentani si salva e ogni 16 ottobre, per ricordare quel magnifico gesto, gli portano dei doni. Ma non poteva bastare. Anche lui viene riconosciuto Giusto tra le nazioni e nel 1994 riceve la medaglia dei Giusti. Proprio mentre l’allora Capo Rabbino di Roma, Elio Toaff, sta per consegnare la medaglia, Natoni gli dice: “Devo precisare che però al fascismo io ci credo ancora, sono e resto fascista e lo sarò per sempre!”. Toaff gli sorride: “Dispiace soltanto di non avere, qui con me, due medaglie, una per lei e l’altra alle sue parole, per l’onestà che lei ha dimostrato nell’esprimerle”.
Gabriele Sonnino nel 2016 racconta che quella mattina – aveva 6 anni – aprì il portone di casa per andare a giocare per strada con la sorellina di 4. Un soldato tedesco prende in braccio la bambina per portarla sui camion. “Io non capivo e mi misi a seguirli perché non lasciavo mai mia sorella, ma non mi rendevo conto di cosa succedeva”, spiega. La scena viene vista da un lattaio, Francesco Nardecchia che, incurante di tutto si precipita fuori del negozio, strappa dalle mani del soldato la bambina, e le dà un ceffone, si sbottona la camicia e fa vedere al soldato la croce che aveva al collo. “Il soldato, spaesato, ha creduto che fossimo cattolici, ci ha lasciato andare – continua il suo racconto – Il lattaio ci ha portato dentro la latteria, e poi passato il pericolo ci ha riportato dai nostri genitori. E ci siamo salvati così grazie poi all’ospitalità che abbiamo avuto qui dai Fatebenefratelli (un ospedale romano a pochi passi dal ghetto n.d.r.), una cosa favolosa”.
Non di tutti questi angeli della solidarietà sappiamo i nomi. Mario Mieli il 16 ottobre del 1943 ha due anni e mezzo ed è in braccio al padre, in fila per salire sul camion che li porterà via. Sono convinti che andranno a lavorare in Germania: hanno già versato i 50 chili d’oro, sono abbastanza tranquilli. Ma c’è chi invece capisce. E’ una signora, una cattolica, con due buste della spesa, una per braccio. Li vede e dice ad alta voce: “Ma che se porta a lavorare un regazzino?”. La sente la zia del piccolo, che sta arrivando trafelata. Le due donne si intendono con uno sguardo. La prima si avvicina al soldato tedesco di guardia: “Oh, quello è mi’ fijo. L’avevo lasciato a ’sta amica mia perché dovevo fa’ la spesa”. Quello non capisce, ma sul camion c’è un deportato che parla tedesco, e anche lui ha capito. Il tedesco a questo punto non ha nulla da obiettare. La zia di Mario fa per riprenderselo, ma la donna con le sporte le dà quasi una spinta: “E che, te lo ridò davanti a loro? Vai ai giardinetti”. È lì che avviene lo scambio. Mario Mieli non ha mai più visto quella donna che tornava da fare la spesa nè ha mai saputo come si chiamava.
Così come sono senza nome i due fascisti che su ponte Garibaldi avvertono una famiglia di ebrei che nel ghetto sta avvenendo il rastrellamento. Lo racconta una delle protagoniste di questa storia: Micaela Del Monte da Intelligo il 16 ottobre 2013.
“Erano le 6 del mattino, mia madre si era alzata per fare colazione e come ogni mattina si era affacciata al balcone, così aveva avuto la terribile notizia da un vicino di casa, anche lui ebreo: i tedeschi erano nel Ghetto e stavano arrestando centinaia di famiglie. Svegliò mio padre Armando e noi tre fratelli, prese i cappotti dalla cassapanca e ci spinse ad uscire. Ricordo ancora l’odore di naftalina e la pioggerellina gelida di quel 16 ottobre. A quell’epoca abitavamo nei pressi di viale Trastevere, da lì ci avviammo verso il quartiere ebraico, sicuri che stare insieme agli altri ebrei fosse la soluzione migliore”. Decidono di dividersi. Da una parte la madre, Micaela e il figlio più piccolo. Il padre e il fratello più grande sull’altro marciapiede. Lì – racconta – è accaduto ciò che ha salvato la vita a tutta la mia famiglia. Due uomini in impermeabile nero camminavano verso mio padre. Mamma iniziò ad urlare: la divisa della milizia fascista era inconfondibile. Armando, Armando scappa!!!. Fu tutto ciò che mia madre riuscì a dire prima che quei due uomini fermassero mio padre”.
“Siete ebrei?” E d’un tratto l’aria gelida di Roma diventò ancora più insopportabile. ”Sì, perché?” Rispose mio padre come se quella risposta potesse non essere fatale.
E invece quella risposta ci ha salvato, quei due “Angeli Neri”, così li chiamo ancora oggi, ci hanno salvato. Perché loro, che provenivano direttamente del Ghetto e avevano assistito al rastrellamento, ci avevano invitato a tornare indietro. Noi stavamo andando verso l’inferno e loro ci hanno chiuso fuori”.
Le storie sono tante. C’è l’infermiera Dora Focaroli, cattolica (che in seguito si convertirà all’ebraismo) che nasconde gli ebrei nell’ospedale. E continua a farlo anche dopo il 16 ottobre con la complicità dei frati minori del vicino convento di San Bartolomeo. La polizia fluviale sull’isola Tiberina (di fronte al ghetto, nella quale si trova l’ospedale Fatebenefratelli, dove Dora nasconde i fuggiaschi n.d.r.) aveva il compito di vigilare sulle sponde. Il comandante Gennaro Lucignano non fece mai rapporto dell’operato di Dora ai suoi superiori ma anzi ottenne per lei i permessi per agire durante le ore di coprifuoco, riuscendo così a nascondere con lei alcune famiglie di ebrei sfollati, fino al momento della liberazione. Al comandante Lucignano venne conferita nel 1949 una medaglia d’argento al merito mentre Dora Focaroli è stata riconosciuta come “Giusta tra le nazioni” e insignita della specifica onorificenza allo Yad Vashem
C’è Adriano Ossicini, medico, antifascista, ministro nel governo Dini nel 1995. Racconta: “Saranno state più o meno le cinque e mezzo del mattino, ero al Fatebenefratelli quando mi accorsi che al di là del Tevere, dalla parte del Ghetto, c’era un movimento di truppe e gente che scappava. Uscii dall’ospedale. Incontrai Giulio Sella, guardiano del dormitorio di S. Maria in Cappella, a Trastevere, un uomo che aveva già aiutato molti ebrei. Mi disse ‘dammi una mano, cerchiamo di salvare qualcuno di questi poveracci. Andammo più avanti e vedemmo la scena. Quello che mi colpì è che nessuno tentò di ribellarsi. In quel momento pensavo che forse io, morto per morto, avrei cercato di fare qualcosa. Ma c’era la minaccia delle armi. Tornammo verso il ponte e avviammo quante più persone possibile verso l’ospedale. Non abbiamo mai saputo quanti fossero in realtà gli ebrei. Ma in quel momento era impossibile fare distinzioni. Chiesi a un certo fratel Raimondo, un prete, di nascondere tutti. Furono messi in un ambulatorio. Il primario, Giovanni Borromeo, in quel momento non c’era, ma sapevo che sarebbe stato d’accordo, perché aveva già ricoverato diversi ebrei nei reparti, facendoli passare per malati. Si salvarono tutti.
L’80% di chi evitò i rastrellamenti si salvò a Roma o nelle sue vicinanze. E l’83 per cento di chi trovò riparo in case private non dovette pagare. Andò diversamente a chi si rifugiò in strutture religiose: il 56% fu costretto a versare soldi, il 4 offrì forme di lavoro, nonostante un articolo dell’Osservatore romano del 25 ottobre, 9 giorni dopo il rastrellamento, che si intitolava “La carità del Santo Padre” e che indicava implicitamente di aprire le porte di conventi e chiese a tutti, senza distinzione di età, di sesso o di religione.
Nel rapporto sull’operazione inviato da Herbert Kappler, tenente colonnello delle SS, comandante dell’SD e della Gestapo a Roma, al generale delle SS Karl Wolff e reso noto durante il processo ad Adolf Eichmann, l’insufficiente successo dell’operazione fu attribuito sia all’esiguità degli uomini adoperati, sia a un “comportamento della popolazione italiana chiaramente di resistenza passiva; che in un gran numero di casi singoli si è mutata in prestazioni di aiuto attivo. Si poterono osservare chiaramente anche dei tentativi di nascondere i giudei in abitazioni vicine – continua il rapporto – all’irrompere della forza germanica ed è comprensibile che, in parecchi casi, questi tentativi abbiano avuto successo. Durante l’azione non è apparso segno di partecipazione della parte antisemita della popolazione”.
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