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Tattica larga, strategia stretta

Si tratta di una formula, di un “principio”, attribuito a Mao Tse-tung e talvolta anche a Lin Piao, il cui senso è abbastanza evidente. Appartiene alla stessa famiglia del “non importa il colore del gatto purchè attacchi i topi”.

Starebbe a significare che, in presenza di un obiettivo strategico di valore assoluto, qualunque azione anche contraria a quel valore sarebbe ammissibile se infine funzionale.

Ciò ha portato a suo tempo i maoisti italiani a considerare il Grande Presidente come il prosecutore della tradizione risalente a Nicolò Machiavelli.

Non stupiscano i più giovani lettori: abbiamo avuto anche noi i nostri maoisti. Essi hanno oggi ceduto il passo ai meno raffinati filo – cinesi.

Tornando però al principio di cui sopra, la sua funzione è evidente.

Nella chiarezza, spesso evocata, del fine ultimo e ineludibile (la conquista del mondo da parte del comunismo) ci si deve poter alleare anche con la destra nazionalista o sostenere movimenti di dubbia origine nei paesi capitalisti.

D’altra parte, sulla base della stessa teoria si stipulò il patto Molotov – Ribbentrop che permise alla Unione Sovietica di aggredire la Polonia in accordo con Hitler e di spartirsela tranquillamente. Diciamo che qui il paradosso più evidente è che Stalin passò poi alla Storia (quella con la S maiuscola) come grande e decisivo avversario del nazismo.

Avversario che non sarebbe mai diventato tale senza la follia hitleriana della “Operazione Barbarossa”, nella cui attesa comunque nazismo e comunismo si spartirono sanguinariamente anche altre nobili terre.

Ma il principio vale anche per storie meno grandi. La mitica “doppiezza togliattiana” era considerata benevolmente da alleati e competitori. L’autore della lettera ai “fratelli italiani in camicia nera” del 1936 è non casualmente lo stesso che, da Ministro di Grazia e Giustizia, concede, appena dieci anni dopo, l’amnistia ai fascisti contro i quali (sempre tenendo d’occhio le esigenze titine sul fronte orientale) avrebbe combattuto.

È ben per questo apprezzamento diffuso che Palmiro Togliatti si fregia di un largo ed importante viale che taglia oggi una grande parte della Capitale d’Italia.

Quel che però la formula non considera e non esprime è che la tattica è molto più importante della strategia. Anzi, è talmente più forte, da prevalere nettamente su di essa.

Ciò è da sempre ben presente alla riflessione guerresca.

Le battaglie si fondano necessariamente su una riflessione di tipo strategico: armamento, scelta del territorio, solidità dell’apparato intermedio, disponibilità di informazioni sull’avversario e così via.

Ma, al momento decisivo, sono le scelte tattiche a prevalere. Un genio come Napoleone Bonaparte crolla a Waterloo perché sbaglia una valutazione tattica. Tutto il resto si annulla di fronte all’errore e la Storia (di nuovo con la maiuscola) cambia il suo percorso.

Nella pratica democratica questa consapevolezza ha portato progressivamente a un profondo cambiamento.

Le forze politiche hanno rinunciato a un obiettivo ultimo (strategia) per riconoscersi nello Stato democratico e, soprattutto, nella sua continuità.

Vale a dire, hanno teorizzato e praticato la accettazione di quanto i predecessori al governo avevano eventualmente fatto, assumendosene la responsabilità e gestendone il cambiamento senza strappi distruttivi.

Uno Stato, una Nazione hanno bisogno di continuità per non impazzire e disgregarsi.

Willy Brandt ci ha insegnato, cadendo in ginocchio davanti al ghetto di Varsavia, che a volte questa continuità non deve riguardare solo le forme istituzionali ma anche il Popolo che in esse vive e si esprime.

Chiedendo perdono, lui che certo nazista non era mai stato, ha posto le basi di una continuità del suo popolo che si è ben riverberata negli anni successivi.

Ogni tanto, però, appare qualcuno che si dichiara convinto di disporre di un obiettivo strategico, talmente forte da aprire le Istituzioni come una scatola di tonno. Un obiettivo strategico assoluto ricompare nell’orizzonte italiano e ottiene un vastissimo consenso.

Forse sarà possibile un’altra volta esaminare a fondo l’illusione teorica che sostiene questa epifania di un mondo nuovo, tutto diverso da quello precedente.

Oggi non si può che provare compassione di fronte alla perentorietà con cui la grande strategia si è ritirata di fronte alla tattica quotidiana. È facile pensare che si tratta di piccola corruzione, di piccoli uomini che cercano di difendere “non piccoli” privilegi.

Tuttavia non è questo, o almeno non è solo questo.

È, ancora una volta e come sempre, la tattica che travolge la strategia.

Ad essi, con comprensione e simpatia, si può rivolgere una famosa frase di Giorgio Guglielmo Federico Hegel che suona, più o meno, così: “Gli allori del semplice volere sono arbusti secchi che non hanno mai verdeggiato”.

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Beppe Attene

Sardo, 1949, socialista da sempre e per sempre. Buttandosi nella politica professionale ha gettato al vento il suo precedente lavoro (Storia del Pensiero Economico presso Facoltà di Filosofia di Cagliari, come assistente di Paolo Spriano). Uscito dalla politica professionale, è stato Direttore di Cinecittà (Produzione filmica) dall’84 al ’90. Dal ’90 al ’93 è stato Direttore Generale del Luce. Ha compendiato gli anni di politica attiva in un libro intitolato “Politica e società civile, un matrimonio difficile” con prefazione di Riccardo Lombardi. Dopo la apertura della caccia ai socialisti è stato produttore e distributore, con alterne fortune e sfortune, per diversi anni. Quasi senza accorgersene nel 2000 ha vinto un Festival di Cannes. Ha diretto per alcuni anni le Grolle d’Oro di Saint Vincent. È stato giurato in numerosi festival italiani ed internazionali Ha diretto, come autore, un doc su Bruno Mussolini intitolato “Bruno e Gina” e uno intitolato “1945, l’anno che non c’è”. Ha appena pubblicato un libro intitolato “Una lunga catena di unione”. Ha visto momenti peggiori ma anche migliori.

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