In questo periodo siamo sicuri di non aver peccato di impazienza o di frettolosità. Tuttavia è venuto il momento di rianimarci e di affrontare la fase due, quella definita della “convivenza con il virus”.
Voi direte: perché, cosa abbiamo fatto fino ad oggi? Vero! Ma non ci hanno lasciato (per fortuna) grandi scelte nello stabilire la nostra strategia contro il male.
All’inizio non sapevamo nemmeno che la malattia esistesse, poi ci siamo blindati -incrociando le dita e trattenendo il respiro- per i famosi 14 giorni. Ora siamo come un cibo scaduto.
E come un carcerato che ha finito di scontare la pena, siamo divisi tra la voglia di libertà e il turbamento di abbandonare un luogo si’ scomodo ma anche protetto.
Ora, però, dobbiamo responsabilizzarci e prepararci a prender parte attiva alla battaglia ancora in corso: è finito l’assedio del nemico ma non siamo ancora in grado di uscire allo scoperto e di affrontarlo in campo aperto.
Dovremo ricominciare a vivere imparando a riconoscerlo, aggirarlo, distrarlo e, soprattutto, “distanziarlo”. Abbiamo alcuni preziosi alleati da mandare avanti (senza metterli in pericolo, ovviamente), da schierare in prima fila: i giovani e i guariti ormai immunizzati. E quando usciremo davvero di casa (maggio), incroceremo un periodo dell’anno sulla carta più favorevole: alte temperature, minore umidità, scuole e fabbriche chiuse, città meno affollate, soldi pochi o nulli da spendere.
Anche se sarà un’estate molto diversa, dove sarà necessario lavorare, recuperare il terreno perduto. Le ferie in fondo le abbiamo già prese, anche se non sono state rilassanti. Sarà una lotta con il tempo tra il vaccino e l’autunno. Quello sara’ il momento della verità quando, se in assenza di una cura ormai sicura, tutti i fattori di rischio potrebbero riesplodere.
Mi sembra ridicolo creare contrapposizioni tra necessità che sono imprescindibili nonché indissolubilmente alleate. Parteggiare per il partito della salute contro il partito dell’economia o viceversa è solo una enorme sciocchezza. Certamente non puoi aspettare che il virus sia definitivamente scomparso per riaprire l’Italia. Questo anche nell’interesse della salute stessa: oltre a non sapere quali complicazioni possono derivare, alla lunga, da una permanenza così reclusa, bisogna rioccuparci anche delle altre malattie che sono state fagocitate dall’emergenza.
Sul fronte della ripresa industriale vedo un grande pericolo: l’economia avrà bisogno di una gigantesca immissione di liquidità e, in certi casi, la soluzione più rapida parrà quella di rendere pubblico, statale o regionale o comunale, quel segmento di attività. Purtroppo tutta la politica nazionale (destra, centro, sinistra) è sempre favorevole al diventare azionista di qualunque cosa, perché ci vede un aumento del suo potere (io ci vedo solo un aumento del debito pubblico).
Al contrario, tra le cose che si sono capite da questa crisi è che lo Stato deve concentrarsi sulle uniche questioni veramente indispensabili. La salute è una di queste poche (insieme alla ricerca).
È un grande privilegio (anche se in queste circostanze sembra una colpa) essere un Paese che ha così tanti suoi cittadini arrivati all’età della “fragilità” e della iperfragilità. Ma non è successo solo perché abbiamo buoni presidi medici. È accaduto perché il nostro sistema sanitario garantisce la gratuità delle cure. In altre nazioni simili alla nostra per qualità dell’assistenza i malati abbandonano i trattamenti, non potendo permetterseli. Questa nostra eccellenza tuttavia va continuamente aggiornata e implementata. Tra le cose che si sono capite durante la crisi è che le malattie si combattono anche (e soprattutto) prima del ricovero in ospedale, che non può diventare l’imbuto di ogni necessità curativa.
Prevenzione e territorio non sono due parole retoriche ed astratte, significano tante piccole accortezze, la modifica di abitudini sbagliate, dovute più a pigrizia che ignoranza.
Nell’attesa spasmodica e miracolistica del vaccino che ci libererà dal panico, cominciamo a prendere quelli che già conosciamo.
Questo significa riorganizzare completamente il modello della sanità. L’assistenza domiciliare e le case di riposo, per fare due esempi di attualità, vanno radicalmente ripensate.
“State a casa” è uno slogan che ci ricorderemo per sempre. Per la prima volta, in epoca di pace, gli Italiani -famosi per la propria diffidenza, individualismo e disprezzo per tutto ciò che è pubblico- hanno delegato integralmente il loro benessere.
Ma è un’impressione errata: essi hanno capito, al contrario, che la salute è una condizione totalmente partecipativa, che necessita di una adesione continua, vigile ed attiva, che il proprio impegno salva gli altri ma che la propria tranquillità dipende dai comportamenti altrui. Per chi è abituato a far tutto per conto suo, non fidandosi di nessuno, scoprire che siamo tutti sulla stessa barca è già un risultato sorprendente e preziosissimo.
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