Mi chiedo se sia giusto, in un giorno importante per gli Italiani come il 25 Aprile, mischiare sentimenti personali e storia patria; i poveri ricordi di un ragazzino che chiedeva: Papà “che festa è oggi?” e i valori, la profondità del sentire comune, l’orgoglio e la gratitudine per tutti quelli che negli anni appena precedenti quel giorno, 25 Aprile 1945, avevano combattuto, con le armi, con le idee, con il silenzio, con la forza della ragione, anteponendo il futuro semplice della speranza al presente indicativo del rischio personale.
Quel giorno l’insurrezione fece volgere la guerra verso la sua fine ed una generazione di politici e di combattenti si accingeva a ricostruire uno stato distrutto fisicamente dalle bombe, dai cannoni, dalle stragi e smembrato nelle idee costrette ad emigrare insieme ai migliori cervelli scampati al carcere ed alla morte. In molti, più bravi di me, oggi, ricorderanno quei fatti, celebreranno quegli uomini, io vorrei ricordare solo lo spirito che dalle macerie ha costruito L’Italia repubblicana, la visione, la strategia, la parte più sfacciatamente immateriale che ha dato forza alla capacità di plasmare la materia. Per fare questo occorre diradare le nebbie dei pregiudizi e delle opportunità, le false visioni che vengono da un uso distorto delle ideologie sapendo bene che un evento traumatico come una guerra civile difficilmente può essere condiviso nella memoria. La storia può fare da barriera al pregiudizio e allora condividerò con voi le ragioni che guidarono quel ragazzino degli anni ’60 a farsi una idea.
Tutto cominciò con la fotografia che apre questo articolo, il corteo del Comitato di Liberazione Nazionale per le vie di Milano a raccontare una vittoria. Se guardiamo solo alla prima fila ci si accorge quanto i combattenti potessero essere uniti dalla necessità di liberare il paese dalla dittatura. Ci sono comunisti, repubblicani, democristiani, socialisti e militari di carriera[1], questa, una componente essenziale se pensate alla forza dell’esercito invasore, solo i nemici della libertà furono fuori dal corteo perché sconfitti.
Può una foto raccontare la Storia? Forse no, occorrono documenti e analisi, ma può raccontare una storia, l’essenza della Storia, non i fatti come sono andati, ma lo spirito che animava quei fatti per aiutare la Storia a farsi memoria.
Il 25 Aprile fu il culmine di un movimento di popolo a cui parteciparono tutti i partiti, ma che vide il contributo centrale delle forze armate che, diciamolo francamente, lo hanno sottaciuto per anni e solo grazie all’intervento del Presidente Ciampi, ufficiale e Partigiano della brigata Maiella, hanno fatto emergere quei fatti come loro identità di patrioti favorendo al contempo l’orgoglio nazionale. Sembravano fatti nascosti all’interno di etichette da cui, forse giustamente, qualcuno tentava di scappare.
Il 25 Aprile celebra l’Italia che insorge e si libera grazie a Italiani in armi. Gli alleati sono ancora lontani dal nord e la resa i dei tedeschi è firmata di fronte a comandanti partigiani.
Questo documento è l’atto di resa delle truppe tedesche costrette ad abbandonare Genova, provate ad immaginare il generale Menholf, comandante delle forze armate Germaniche che non solo capitola, ma cede le armi di fronte a Remo Scappini, un operaio partigiano diventato Presidente del CLN Liguria, e al Maggiore Mauro Aloni, Comandante Militare della piazza genovese. Una eventualità non messa nel conto se pensate che il vice di Menholf per la vergogna si suicidò.
Fu l’unità a vincere, non solo i combattenti, ma il popolo intero che nelle città offriva supporto logistico, curava i feriti; vinsero i sacerdoti, “ribelli per amore” come recita il libro di don Giovanni Barbareschi, che presero parte a quel movimento di libertà perché il fascismo non è un mitra, una camicia nera o un saluto romano… ma una mentalità, alla quale è sempre necessario ribellarsi, vinsero le brigate ebraiche, i monarchici antifascisti, insomma: vinse il popolo italiano.
Nel 1981 Enzo Biagi intervistò il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, vincitore della guerra contro il terrorismo interno. A lui chiese a bruciapelo, da consumato giornalista, di elencare i fatti che avessero contato di più nella sua vita. Il generale fece una lunga pausa come se stesse cercando una risposta sola, poi risolse il dubbio proponendo a Biagi due fatti uno privato ed uno professionale. Quello privato riguardava il giorno in cui incontrò la moglie e quello militare descrisse di quando, ufficiale dell’Arma, nel contesto della resistenza, si trovo alla testa di tanti patrioti e responsabile di intere popolazioni. Questo fu l’antifascismo, non una guerra di parte, ma una battaglia che ci appartiene, che è di tutti, che è bene comune.
“Sorprende sentir dire, ancora oggi, da qualche parte, che il Fascismo ebbe alcuni meriti, ma fece due gravi errori: le leggi razziali e l’entrata in guerra. Si tratta di un’affermazione gravemente sbagliata e inaccettabile, da respingere con determinazione. Perché razzismo e guerra non furono deviazioni o episodi rispetto al suo modo di pensare, ma diretta e inevitabile conseguenza. Volontà di dominio e di conquista, esaltazione della violenza, retorica bellicistica, sopraffazione e autoritarismo, supremazia razziale, intervento in guerra contro uno schieramento che sembrava prossimo alla sconfitta, furono diverse facce dello stesso prisma“.
Queste sono le parole del Presidente Mattarella nel suo discorso per la giornata della memoria, le ho scelte al posto di quelle di qualsiasi storico proprio perché, come Presidente è il simbolo della nostra unità ed è ora che lo spirito di quella unità torni a illuminare le nostre azioni.
In Italia abbiamo altre date che ogni anno celebriamo: le Forze Armate, la Repubblica, La Costituzione, istituzioni essenziali al funzionamento della nostra democrazia che non potrebbero esistere senza quel 25 Aprile che oggi ricorre come momento di Unità Nazionale.
Da quel giorno furono i partiti (prima erano in clandestinità) a diventare protagonisti della nuova vita democratica del Paese, l’apparato militare lascio il posto alla politica perché così funziona una democrazia. Guardate ancora la foto, tempo di guerra, il comandante, al centro dello schieramento è un generale, Raffaele Cadorna, comandante del CVL, figlio del Cadorna capo di stato maggiore durante la prima guerra mondiale e nipote del Cadorna della Breccia di Porta Pia. L’Italia si incammina verso libere elezioni, suffragio per le donne, la Repubblica, La Costituzione. Oggi sembra facile a dirsi, ma occorre pensare che quelle masse di uomini, ancora sudditi, a cui i partiti avrebbero dovuto presentare scenari e strategie di intervento futuro erano, nonostante l’entusiasmo e la partecipazione popolare alla lotta antifascista, non proprio predisposte alla educazione civile venendo da venti anni di indottrinamento e di manipolazione a fini totalitari e di mobilitazione in unica direzione.
Devo dirvi ora che il bambino degli anni ’60 faticò non poco a far chiarezza su tutto questo perché dopo solo quindici anni quello spirito unitario era svanito, si viveva di contrapposizioni: Sansone contro Maciste, o bianco o nero, o Coppi o Bartali. C’era nell’aria una sorta di filosofia dell’appartenenza o con me o contro di me. Io ricordo che quando bambino mi presentai in Chiesa dal mio parroco a candidarmi come chierichetto fui subito cooptato e costretto a scegliere tra due gruppi rivali del catechismo locale, lusingato da entrambi a rinforzare l’uno o l’altro in alternativa. Ci si dividevano le funzioni del mese Mariano: un giorno uno e un giorno l’altro e vi confesso che già allora io non capivo. Oggi non saprei nemmeno dirvi perché, ma la contrapposizione era la regola, lo schieramento una necessità. Ne fece le spese proprio quello spirito unitario che aveva animato la resistenza e poi la scrittura della Costituzione.
Era come se ciascuno avesse addosso una serie di etichette che lo identificano senza alcun riferimento alla complessità che la storia stessa disegna su quelle etichette in termini di relazioni reciproche. Così successe che i partiti della sinistra, PCI in testa tentarono di impossessarsi della resistenza facendone una storia di parte. Errore politico che stiamo ancora pagando perché annullò l’antifascismo come sentire comune. Cominciò a farsi strada l’idea che antifascista significasse essere comunista e che fascismo e comunismo potessero essere le due strade tra le quali dover scegliere. Come è possibile, mi domandavo io da bambino se contro il fascismo e le sue malefatte abbiamo combattuto tutti insieme.
Gli errori li fecero tutti, negli anni ’60 erano ancora caldi i manifesti elettorali della DC che mostravano cosacchi che avrebbero potuto abbeverare i cavalli nelle fontane di Roma o madri spinte a tutelare i propri bambini dalle fauci infanticide dei sovietici.
Successe così che per reazione al comunismo, sulla scena ricomparvero i “fascisti”. Qualcuno lo era davvero sfuggito alla nostalgia della dittatura, ma qualcun altro si definiva tale solo per poter essere anticomunista. Fu un disastro ideale senza proporzioni, si perché il contrario di fascismo non è comunismo, ma democrazia e il contrario di comunismo (il PCI prese una strada molto diversa in quegli anni) non era fascismo, ma ancora una volta democrazia. Successe allora che nella contrapposizione delle etichette chi ci ha rimesso è stata proprio la democrazia che ha smesso di essere considerata dagli uni e dagli altri quello per cui si è lottato insieme, quello che si è conquistato superando divisioni apparentemente insanabili.[2] Cosa sei? Ti chiedevano e non era previsto che si rispondesse: sono solo un Italiano innamorato della Repubblica e della Costituzione. E’ una risposta più articolata e razionale di una semplice etichetta, richiede sforzo, studio e abbandono di pregiudizi atavici, ma è l’unica strada verso la complessità della storia e la costruzione di una memoria nazionale, di una Patria. Patria è la parola che usa Mazzini per definire l’Italia ancora divisa e occupata e la sogna “Patria in mezzo alle altre Patrie”. Questo è il messaggio che ha costruito l’Italia. “Prima gli italiani” non è un messaggio patriottico per niente, solo insieme alle altre patrie si può essere una patria a cui appartenere, parola di Giuseppe Mazzini e scusate se è poco.[3]
Anche solo cantare fa emergere ancora oggi pregiudizi e ignoranza della storia, facendo vittima la democrazia, tanto per cambiare. Il 25 Aprile fece sorgere una ballata che piano piano tutti cominciarono a cantare, fu scelta dai combattenti, uno ad uno, tutti, senza un voto Parlamentare (anche perché il Parlamento ancora non c’era) diventa l’inno comune della libertà ritrovata. La cantavano alla sera, nelle case, nelle cascine, nei circoli dove ci si poteva di nuovo ritrovare, la cantarono i cattolici, i comunisti, i monarchici, tutti la stessa canzone, la cantavano le donne che ancora non potevano votare, ma la scelsero. Qualcuna di loro aveva visto con i propri occhi un combattente per la libertà dover uscire di casa e “bella ciao!” lo aveva forse sentito con le proprie orecchie.
Nessuno cantò mai quella ballata durante la resistenza, è strano, si combatteva per lo stesso scopo, ma nessuno aveva avuto il tempo di scegliere un inno comune.
Nascosti nei rifugi al buio per non farsi vedere, cantavano ciascuno la propria canzone, bastano pochi versi per assegnare a ciascuna l’appartenenza al gruppo di combattimento.
Fischia il vento ed urla la bufera… a conquistare la rossa primavera dove sorge il sol dell’avvenir cantavano i comunisti sull’aria di una musica russa. Il partigiano, l’arma alla mano guarda lontano, guarda lontano, con la certezza che porterà giustizia, giustizia e libertà cantavano i repubblicani e i socialisti. Cantavano anche le brigate alpine al ricordo di un loro compagno morto in nome del quale avrebbero continuato a combattere: Nemici traditori, un altro compagno è morto, Ma un altro partigiano oggi è risorto. Cantavano i cattolici una preghiera in musica per un compagno sepolto in montagna a cui si ricordava che la mamma tua lontana / ti piange sconsolata / mentre una campana / in ciel prega per te.
Ciascuno la sua, non esisteva una canzone comune, ma la liberazione ne esigeva una. Nessuno sa ancora come, le vie della musica seguono percorsi tortuosi e imprevedibili come quelli della conoscenza e della memoria, ma piano piano una canzone sulle cui origini ancora i musicologi studiano e si confrontano, diventò la voce del 25 Aprile. Sembra derivare da una ballata cinquecentesca e ha un testo ed una musica travolgente in grado di rappresentare quella unità di intenti in modo perfetto, non è retorica, non è triste, parla della vittoria contro l’invasore e quando cita il sacrificio, la morte, la considera come un passo verso la vittoria degli altri. “Bella Ciao” diventò l’inno della guerra di liberazione solo dopo la fine della guerra stessa. L’Italia Repubblicana, di cui quello di Mameli è l’inno ufficiale ancora non esisteva. “Bella Ciao” fu la canzone popolare che unì un esercito di cui fecero parte tutte le formazioni politiche che lottavano contro il nazifascismo, fu anche la canzone dei militari del disciolto esercito che aderirono, fedeli al loro giuramento, alla lotta per la liberazione della propria patria. Fu il canto di quella parte dell’esercito che riuscì a sfuggire alle deportazioni e che si aggiunse agli 800 mila internati nei lager che hanno rifiutato di combattere di fianco ai tedeschi preferendo la prigionia al tradimento. Il testo non parla di “bandiere rosse” o di “vento dell’est”, ma “dell’invasore trovato in casa” da combattere in nome della libertà, parla della bellezza che sfioriva nell’adolescenza rubata dall’orrore di una guerra.
Considerarla un inno di parte ha tre possibilità: o si è ignoranti di storia Italiana e questo si colma studiandola, o si vive ancora il pregiudizio e gli errori che tutte le parti politiche hanno fatto negli anni ’60, ma il tempo dovrebbe aver costruito processi cognitivi al di là delle etichette, oppure si è ancora profondamente fascisti ed allora occorre capire che quella guerra è stata combattuta contro il nazi fascismo, è stata vinta ed ha costruito questa splendida Repubblica Democratica che chiamiamo Italia. Nell’ultimo caso, cari signori, rassegnatevi, Bella Ciao è una canzone antifascista, come lo è la Repubblica Italia e la sua Costituzione.
Bella ciao, è un inno alla vita. La vita è tutta dentro il “ciao” anche se dovesse essere “addio”, perché anche dalle ceneri di una sepoltura può nascere un fiore. Avevo circa dieci anni e quel fiore me lo sono sempre immaginato come una primula, non so perchè, non ho documenti, storia, archivi, nulla di tutto questo, solo un pezzo della immaginazione di un bambino che vedeve in quel fiore la rinascita, attraverso la bellezza e non la forza. Un fiore che ha permesso a noi di vivere liberi in un paese moderno ed avanzato. D’altra parte sul gonfalone della mia città era scritto “post fata resurgo” e ho sempre pensato che fosse…
questo il fiore del partigiano
Morto per la libertà
Buon 25 Aprile a tutti.
[1] da sinistra Mario Argenton, ufficiale dell’esercito, coordinava le azioni di resistenza. Giovan Battista Stucchi, ufficiale di fanteria, comandava l’insurrezione. Ferruccio Parri leader del Partito D’Azione. Raffaele Cadorna Generale comandante del Corpo Volontari della Libertà. Luigi Longo, Partito Comunista Italiano. Enrico Mattei imprenditore cattolico
[2] A proposito di quei pregiudizi, qualcuno oggi accusa il Papa di essere socialista perché difende i poveri, state tranquilli è la stessa distorsione. Stiamo attenti alle conseguenze.
[3] Concetto ripreso meravigliosamente nell’art 11 della nostra Costituzione
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