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A prescindere da Conte e Renzi

Vorrei prescindere, per i pochi minuti della lettura di queste righe, dalla sfida che ha preso connotati da cinema western tra Renzi e Conte.
Anche se proprio oggi pochissimi prescinderanno da questi due nomi.
Non perché di fronte al conflitto politico si debba elevare sdegno moralistico, quando è evidentemente ammissibile che un conflitto politico chiarito possa persino essere salvifico.
In più, in questa vicenda, un conflitto per giunta “non chiarito” ha prodotto qualcosa di buono, rimediando 9 miliardi in più per la sanità che sotto l’albero di Natale il governo non aveva trovato.

Questa “ridotta” della nostra complessità attuale rischia di farci annegare nel giallo di oggi (chi è il colpevole? come finirà?) senza farci vedere il nero e piacerebbe pensare anche il rosa che ci riserva il domani.

Il grande conflitto globale scatenato dalla pandemia e incrociato a una caduta del PIL e dell’occupazione che ha come soglia minima il 10% è un campo di battaglia che ha tre scenari di uscita. Nel senso di tre strade maestre, su cui cammina la politica da anni, strade presidiate da popoli, poteri e metodi. Sono i tre veri grandi macro-partiti dell’età moderna. Il negazionismo (che è per principio distruttivista); il galleggiamento (che ha una vocazione rimozionista), l’innovazione (che ha temperamento progettualista). Raccontati così e non con i nomi propagandistici o evasivi dei partiti si capisce meglio come sia evoluta la storia della politica e come quella italiana non sia da sola al momento l’unica situazione a rischio.

Lo schema politico italiano che si è espresso negli ultimi anni ricorda l’epoca della democrazia bloccata raccontata cinquanta anni fa dal compianto Giorgio Galli nel suo “bipartitismo imperfetto”.
Due grandi maggioranze contrapposte – negazionisti e temporeggiatori – e una minoranza magari anche preparata ma radicalmente, quasi disperatamente, frammentata pur avendo potenzialità innovativa.

Nello schema dell’Italia appena liberata, 75 anni fa, le due chiese popolari – democristiani e comunisti – riflettevano a loro modo, nelle dominanti, lo schema dei conservatori e dei negazionisti (questi ultimi, pur nel conflitto con il loro impegno e la loro dedizione, a causa della collocazione internazionale filosovietica e anti-occidentale). L’area liberale, nel tempo saldatasi con l’evoluzione riformista dei socialisti e con la cultura radicale dei diritti, ha avuto la debolezza di non riuscire a modificare lo schema elettorale, ma ha avuto però la forza di modificare lo schema politico, convincendo la componente riformista da sempre in seno alla DC ad accettare le sfida dei cambiamenti di governo e convincendo la minoranza “migliorista” del comunismo di fare cantiere (o per lo meno di considerare importante quel cantiere) dedicato alla prospettiva di altri cambiamenti.

Questa dinamica si è trasformata negli ultimi venticinque anni fino a travolgere largamente la qualità politica della rappresentanza, centrale e territoriale. E a sgretolare una parte importante dei gruppi dirigenti all’altezza delle sfide.

Ma si è mantenuto lo schema delle tendenze di fondo. Quello per cui gli innovatori (quelli che studiano l’improbabilità, quelli che sperimentano cose rivolte al futuro, quelli che investono nella conoscenza) si sono ritrovati ancora più marginali e frammentati, mentre galleggiatori e negazionisti hanno addirittura acceso patti di governo.

L’incremento dell’analfabetismo, funzionale e di ritorno, in seno alla società ha cementato questo patto. Tanto che la politica ha restituito a questa pesante domanda la sua proposta confezionando governi in cui la soglia di competenza e di esperienza non ha costituito elemento di rigore e a lungo questo requisito (pur con alcune eccezioni e con un certo apprendimento del premier) è stato rubricato come secondario.

Facendo queste riflessioni, le considerazioni di chi non sfugge di solito a riportare valutazioni e previsioni sui soggetti che agiscono in concreto, vengono lasciate, nel tempo di un lampo, in questa soglia spersonalizzata. Penso infatti che, in un giorno comunque di dubbio e di sconcerto per molti, i nostri lettori possono guardare le cose “a prescindere” dalla personalizzazione della crisi. E possono essere indotti a vedere, almeno per un attimo e comunque poi grazie a considerazioni ben più argomentate da altri, da dove viene la crisi conclamata. Soprattutto per sentire (come nel colle più alto vengono certamente sentite) l’importanza e la gravità di dove essa potrebbe dirigersi. Certamente al di là dei nomi di chi oggi la interpreta.

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Stefano Rolando

Stefano Rolando è nato a Milano nel 1948, dove si è laureato in Scienze Politiche e specializzato alla Scuola di direzione aziendale della Bocconi. Tra vita e lavoro si è da sempre articolato tra Milano e Roma. E' professore universitario, di ruolo dal 2001 all’Università IULM di Milano dopo essere stato dirigente alla Rai e all'Olivetti; direttore generale dell'Istituto Luce, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Consiglio Regionale della Lombardia. Insegna Comunicazione pubblica e politica e Public Branding. Ha scritto molti libri sia su media e comunicazione che di storia, politica e questioni identitarie. Da giovanissimo è stato segretario dei giovani repubblicani a Milano, poi ha partecipato al nuovo corso socialista tra anni settanta e ottanta. Poi a lungo non appartenente. Più di recente ha lavorato sul civismo progressista (Milano e Lombardia) e su un progetto politico post-azionista in relazione al quale è parte della direzione nazionale di Più Europa.

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