Dal 13 al 17 novembre Milano discute di libri e scrittura “senza quartiere”.
Cioè in verità in tutti i quartieri, dal Castello Sforzesco a Gratosoglio, sotto ogni tetto che si considera “luogo” di dibattito pubblico, chiamando tanti pubblici che rispetto al libro sono al tempo stesso generali e differenziati, popolari e professionali, in rapporto ai mestieri ma anche solo in rapporto ai piaceri.
Rispetto alla visione “salonistica” della promozione del libro, che comunque ha avuto il suo ruolo e per molti versi lo ha ancora, Milano consolida con Book City la sua carta migliore, quella della partecipazione diffusa e policentrica. “Curioso, aperto, inclusivo” dice di se’ il biglietto da visita dell’evento.
La diatriba di Milano con Torino è di vecchia data.
Chi scrive aveva dalla meta’ degli anni ‘80 una responsabilità istituzionale, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, anche in materia di promozione del libro e della lettura, quando il conflitto MI-TO divampò a proposito della collocazione del primo vero e proprio “salone del libro”, rispetto a cui Milano rivendicava il primato tanto industriale quanto creativo, ma non fu in grado di mobilitare vere risorse e vere volontà per sostenere senza dubbi la sua candidatura.
Così che anche lo scrivente, malgrado la sua milanesita’, dovette riconoscere che istituzioni e mecenatismo torinese confezionarano un progetto più convincente e più durevole. Le rampogne degli editori e dei quotidiani milanesi furono tanto forti quanto aprioristiche (ricordo mezza pagina sul Corriere di Valerio Riva, in sintonia con un arco editoriale che andava da Feltrinelli a Spagnol), ma per le condizioni date e per la tenacia progettuale aveva senso sostenere al tempo la proposta di Torino.
Più di trenta anni dopo fattori di crisi del modello torinese rimisero in discussione progetto e formula. E lo scontro con Milano si ripropose, anche in questo caso con un eccesso di autoreferenzialita’, forse di entrambe le comunità’, che finì per fare reagire e alla fine favorire la proposta sulla carta più debole (piccoli editori contro grandi, ma con una forza di brand socialmente diffusa).
E così il secondo successo torinese in questo genere di derby ha decisamente spinto il sistema-Milano a ripensare in un certo senso in forma più capillare e orizzontale il modello di iniziativa che ha preso negli ultimi anni la fisionomia, il carattere, la portata di Book City.
Ho sottomano il programma dettagliato dei circa 1700 eventi (in alcuni casi con importanti blocchi tematici, 100 sono dedicati ad esempio all’Africa), che sono stati generati con mobilitazione di autori, operatori, pubblici ben segmentati, ambiti della vita culturale, sociale e istituzionale articolatissimi. E ciò per fare della manifestazione una performance naturale di una città ormai a tendenza metropolitana, lanciata nella post modernità, con un radicamento della “cultura della lettura” che scuola e mercato del lavoro, media e università, impresa e dinamiche professionali, istituzioni e decentramento, possono alimentare con prodotti, linguaggi e protagonisti ben differenziati.
Aprirà la kermesse lo scrittore basco Ferdinando Aramburu, caso editoriale del 2018 con il suo romanzo “Patria”, edito in Italia da Guanda, dietro a cui il suo pensiero e’ ben evidente: “la democrazia non è possibile senza cittadini liberi, capaci di decidere per se stessi, capaci di valutare”, dice a Paolo Giordano su ”La Lettura”.
Si ricompone così una certa complementarità di sistema al servizio di un grande tema sociale e civile: la tenuta della lettura in epoca di crisi di mercato del libro tradizionale, la saldatura tra forme di consumo a sostegno della ineludibilita’ dei contenuti librari per il successo identitario e competitivo delle comunità e delle persone.
Book City ha una governance assicurata da quattro fondazioni specialistiche nel campo editoriale (Corriere, Mondadori, Feltrinelli, Mauri), un presidente tenace come Pier Gaetano Marchetti, un raccordo generale con l’Amministrazione comunale (tutto il team della Cultura con a capo Filippo Del Corno) che a Milano significa tenuta del modello economico e progettuale pubblico-privato.
Per Milano e Torino (in testa entrambe alla gerarchia del sistema editoriale italiano) questo argomento non fa parte della casualità eventistica. Ma è parte da secoli dello stesso citybrand. Cioè dei caratteri di riconosicibilita’ di due realtà multi-vocazionali. Certo in modo più ampio Milano che, in questo campo che confina con i punti alti della struttura sociale e produttiva (università, ricerca, internazionalità), costruisce un argomento che non può uscire dallo scudo di immagine ma che, per restarci in modo sostenibile, deve coniugare tradizione e innovazione.
Tanto Milano quanto Torino sono città incamminate in questa impresa (anche qui Milano si è mossa prima, ma Torino ha fatto di necessità virtù con molteplici esperienze). Ora è arrivata la stagione per superare storiche conflittualità e – con i treni che collegano in meno di un’ora – passare a piani integrati.
Intanto una collaborazione e’ in corso ed è dichiarata programmaticamente.
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