Non sono una volontaria, sono comodamente in Italia, ma le mie serate sono fatte di lunghe chat con chi ha deciso di regalarmi questa testimonianza, un medico che ha deciso di condividere con me un’esperienza, fatta di parole scritte e puntini sospensivi che mi fanno immaginare cosa accade. Le mie mille domande e la mia voglia di poter fare qualcosa in più. Conosco bene alcuni paesi da cui vengono i profughi e non mi stupisce la loro dignità, il loro coraggio e l’abitudine al dolore, al sentirsi rifiutati. Scappano dalla loro terra e noi continuiamo a portargli le nostre guerre. Come uno scrivano trascrivo e cerco di dare un senso al racconto da un inferno in un’isola paradisiaca.
“Chios e’ una delle isole lanciate dagli dei dell’Olimpo nel mare Egeo, bella di una bellezza antica come solo le isole greche sanno essere. E’ una mezzaluna di rocce rosse, spiagge nere a ricordare l’origine vulcanica,immersa in un mare turchino. Sono evidenti le sovrapposizioni di stili architettonici che risentono degli influssi arabi ma, soprattutto genovesi, che la governarono a lungo. Le case che alternano il bianco della calce al rosso della pietra locale il tutto sotto un cielo blu cobalto. La vita scorre tranquilla a Chios, ordinata, seguendo il ritmo del tempo e delle stagioni.
Le persone affollano le taverne affacciate sul porto, in questa stagione ci sono pochi turisti, le strade non sono affollate e le spiagge deserte. Tutto segue il suo ritmo, nonostante quel braccio di mare, largo poco più di 6 o 7 miglia nautiche, che lo separa dalla Turchia, anche se forse sarebbe meglio dire che lo unisce. Dal porto di Chios le montagne turche che circondano Smirne le puoi vedere distintamente, se allunghi un braccio le puoi toccare. Il bello dell’isola e poi la disperazione dei profughi dall’altra. Un’umanità disperata alla quale il fiume carsico della vita ha sottratto le proprie vite consegnandole ad una moderna tragedia omerica. Non sarà un caso che queste persone siano qui, sull’isola dove si vuole sia nato Omero, il cantore delle odissee degli uomini. Il cerchio del destino si chiude.
Scorre tranquilla la vita a Chios, e se ti fermassi alla superficie non penseresti che a pochi chilometri dal mare cristallino ci sia l’inferno in terra. La realtà, come spesso accade, la si deve cercare ben oltre l’apparenza. Oggi tira vento. Qui devi imparare velocemente come funziona. Se c’è vento difficilmente ci saranno sbarchi di profughi. Troppo pericoloso, troppi morti in passato. Allora ti lasci alle spalle lo sciabordio delle onde e vai a quel campo, sperando che la strada si allunghi, perché già lo odi ma ti accorgi di stare accelerando per arrivare prima. Di notte il buio ed il cielo stellato fanno ombra, ma di giorno la desolazione ed il dolore del campo sono un pugno nello stomaco. Sei lì, tra la gente e leggi nei loro occhi il dolore di chi ha dato del tu alla morte e l’amarezza di chi viene lasciato morire ogni giorno, nell’indifferenza dei più.
Si intrecciano storie in quel campo. Storie che a sentirle diventa complicato raccontarle. È una sorta di Arca di Noè umana che invece di andare verso la salvezza stiamo guidando verso il baratro. Confinandoli in quei campi militarizzati stiamo annientando le loro coscienze riducendoli a numeri. I numeri. Ci sono due cose che ti colpiscono quando parli con loro, con chiunque di loro: la prima e’ l’assoluto rispetto per il proprio corpo che riescono a curare, nonostante tutto. Non ho idea di come facciano ma nessuno di loro emana l’odore che ti aspetteresti in quelle condizioni igieniche. Neanche il campo lo emana. La seconda è che quelle persone non hanno più un nome. La burocrazia greca ha deciso che quelle persone, dal momento in cui sbarcano, diventano un numero. Un numero stampato su un pezzo di carta che li identificherà fino a quando non lasceranno il campo. Quando gli chiedi come si chiamano e da dove vengono, spiegano, senza parlare due fogli di carta, che conservano gelosamente tra le mani, e te lo porgono. Li sopra c’è scritto il loro numero di identificazione.
Ognuno di loro ha gli stessi identici pezzi di carta, piegati nello stesso identico modo, spillati nello stesso identico modo, sgualciti nello stesso identico modo. Tutti lo tengono nelle mani nello stesso identico modo. La memoria te lo rende insopportabile ed allora tu, ostinatamente, oltre quel numero, su quel referto, ci scrivi anche il nome. Sai che non ha senso ma sai che devi farlo. Siriani, curdi, yemeniti, afghani, somali, qualche iraniano, una coppia dal Congo che ti chiede un letto più grande perché in tre, su una branda non ci stanno, una coppia dal Hindukush ti riporta con la mente a “Paropamiso” di Fosco Maraini. Lui era un interprete di Medici senza Frontiere, nel nord dell’Afghanistan, parla un inglese fluente, sorride, il sorriso di chi non ha niente da perdere, ma forse ha perso tutto.
Le donne vengono all’ambulatorio quasi sempre sole, sono smarrite. Tu sei un uomo e loro sono quasi tutte mussulmane. Cerchi di essere il più discreto possibile, loro sono rassegnate. Quando chiedi se puoi visitarle, nel caso fosse indispensabile, si mordono il labbro e ti dicono di fare quello che è meglio per il bambino che aspettano. Un bambino che , se nascerà in quel campo, sarà anche lui un numero. Poi arriva lei. Una ragazza di 19 anni. Avvolta in un hijab grigio. Immacolato. Sola anche lei. Sofferente. Provi ad usare quello che è diventato il tuo compagno inseparabile, il traduttore di Google, ma la connessione è troppo lenta e lei e’ troppo soffrente. Allora vai a cercare il traduttore nel campo, lo trascini nell’ambulatorio e cerchi di capire.
La ragazza è stata in ospedale il giorno prima. Non le hanno dato medicine. Le fai spiegare che farai un’ecografia e poi, probabilmente, la dovrai visitare. Stesso labbro morso, stessa risposta. Fai quello che è meglio. Sai che è una violenza ma sai che se dovesse essere necessario gliela dovrai usare. Fortunatamente per entrambi non ha niente. Pensi ad una colica renale e le dai la terapia. Le pillole contate, esattamente per i giorni previsti, perché nel campo, in quel campo, non puoi permetterti di sprecare neanche una compressa di antibiotico. Sta un po’ meglio. Ti guarda. Gli occhi sono neri, ha una bella luce negli occhi. Ha tre anni meno della tua seconda figlia ed è arrivata lì dalla Siria. Dopo essere scampata alle bombe. Non osi chiedere delle possibili violenze. Aspetta ad alzarsi.
Ti chiede qualcosa ma tu non capisci. Fa un gesto simile a quello che potremmo fare noi mimando le manette. Continui a non capire. Allora lei ti prende il telefono e sulla tastiera araba che hai installato ti chiede quando potrà andare via dal campo. Ad Atene, dice. Tu non lo sai, non puoi saperlo. Non spetta a te decidere e non hai nessuna possibilità di incidere, neanche se fosse in punto di morte. Provi a dirglielo spiegando che tu sei solo un volontario e che per la burocrazia greca non esisti. Non sei neanche quel numero che è diventato lei. Il sorriso amaro che hai imparato a conoscere dura un attimo. Riprende il cellulare ma non c’è di nuovo connessione. Sembra stare meglio. Riesce a muoversi ed allora andate insieme a cercare il traduttore.
Parlano tra di loro ed il traduttore ti spiega che lei vuole sapere da te come fare ad avere un materasso, perché dorme sul pavimento. Ti fai forza, perché sai che tu, per loro, sei un piccolo momento di normalità, vogliono un’attenzione, quell’attenzione che nessuno gli dà. Vogliono provare a non essere un numero, almeno per qualche minuto. Non puoi cedere, non puoi mostrare i tuoi sentimenti, quello che pensi, quello che provi in quei momenti. La devi rassicurare,I indipendentemente da tutto e allora le spieghi di nuovo che tu sei impotente. Non puoi risolverle il problema, anche se sai che tu proverai a non andartene da questa isola senza averle procurato un materasso. Ma non puoi illuderla. Perché non è scontato che riuscirai a consegnarglielo; capisci che lei già lo sapeva. Perché i numeri non hanno diritto neanche ad un letto. Si gira e va via, lasciandoti il suo sguardo incollato all’anima. Non era una colica renale, era un materasso di meno. Vorresti andare via.
Chiudere l’ambulatorio, perché per stasera può bastare così. Ma sai che non puoi. Altre donne, altri numeri, aspettano il loro attimo di “normalità”. La sintesi, definitiva, la fa un giovane siriano con il quale ti fermi a parlare: in questo campo, la normalità è un concetto che non ci appartiene. Ti dice con grande semplicità. Nessuno di noi lo è.
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