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Cinquestelle e Lega alla resa dei conti interna: cultura di governo o populismo bizzarro?

Viaggio nel Pronto Soccorso dei partiti politici italiani/1

Dal Vaffa Day al Draghi Day

Il Movimento Cinque Stelle è stato fondato nel 2009 da Beppe Grillo e da Roberto Casalegno, dopo le “prove generali” del V-Day del 14 giugno 2007. Nello stesso 2009 Grillo provoca il PD candidandosi alla sua segreteria. Nel 2012 registra lo statuto, centrato sulla democrazia diretta contro la democrazia rappresentativa e propugnando la teoria dell’uno vale uno, con una linea populista, euroscettica, favorevole alla decrescita e all’anticorruzione, elementi che lo collocano in un posizionamento oggettivamente trasversale, con spunti di destra e di sinistra comunque caratterizzati da una vocazione antipartitica. Nell’Italia che sta consumando i molti irrisolti della cosiddetta “seconda Repubblica” (una sinistra scarsamente riformatrice, una destra al traino del personalismo ormai bizzarro del berlusconismo “maturo”, impastati dal terzo dell’elettorato considerato “analfabeta funzionale”) l’esplosivo mix masaniellico è quel che serve per aspirare a un successo elettorale veloce, composito e dunque equivoco. Apre tuttavia con forza ai giovani su tre fronti: la cultura digitale, l’orientamento per i diritti civili, l’ambientalismo. Ha risultati interessanti, tra regionali e amministrative, nel 2010-2011 (l’epoca di Pizzarotti, che nel 2012 conquista Parma). Nel 2012 Grillo fa a nuoto le stretto di Messina e sfiora il 15% alle regionali siciliane. Alle politiche del 2013, con Beppe Grillo capolista in ogni circoscrizione, quasi 9 milioni di italiani votano i “grillini” (25,5%). La linea politica della legislatura è: nessun amalgama (con Bersani deriso, che accetta lo streaming pubblico per un inutile corteggiamento). Alle elezioni europee del 2014 l’onda si consolida (21,15%), ma la spinta allo smarcamento generalizzato porta il Movimento sulla destra della sua rappresentazione europarlamentare (prima addirittura con Farage, poi facendo saltare una possibile alleanza con i liberali, nell’idea che il “nuovo corso” post-ideologico può digerire qualunque cosa). Nel 2016 muore Casaleggio, Grillo regna solo, ma si comincia a formare una prima linea che persegue indirizzi alternativi, purché “strafottenti”. Ci sono versioni fascistoidi, radicaloidi, terzomondiste, post-democristiane, che si saldano in una progressiva alternativa al partito di sistema, il PD. Il 4 marzo del 2018 M5S è il primo partito italiano, con il 32% dei consensi.

Mentre cominciano abbandoni ed espulsioni (che porteranno alle europee del 2019 un primo serio calo, al 17%), nel furore anti-PD, matura l’alleanza giallo-verde (M5S-Lega), che produce il primo giugno 2018  il Conte 1, una delle vicende più snaturate della politica italiana del dopoguerra, somma di due percorsi in cui sventatezze e opportunismo, accarezzano sentimenti di “cambiamento profondo” e fanno pagare all’Italia il conto di una classe dirigente complessivamente inadeguata alla portata dei problemi sul tavolo di governo (argomento della formazione del primo conflitto interno ad una Lega che pareva monolitica).

Nell’estate dell’anno successivo sarà lo stesso Conte a processare in Parlamento l’alleato leghista, conquistandosi con la sua prima vera “strambata” (la brusca virata sottovento dei velisti) il diritto ad orientare la più imprevedibile delle soluzioni: l’alleanza di M5S con il PD, che segue l’idea diffusa in Italia e in Europa “meglio qualunque cosa di Salvini al governo”.  E’ il Conte 2. In cui per un altro anno ogni giorno gli analisti metteranno il termometro alla politica italiana per capire se è il PD che ha convertito alla democrazia rappresentativa e liberale i Cinquestelle o è “il Movimento” che ha convertito alla melassa populista il PD. Apparendo piuttosto vero che entrambi gli obiettivi si sono compiuti a metà (patologia all’origine di alcune diagnosi del “pronto soccorso politico” in atto).

Il dualismo leghista

Nello scontro di queste opinioni si è consumata la maggioranza parlamentare di sostegno alla politica della chimera mitologica, bicefala, alla luce delle necessità di una guida lineare e autorevole del governo, sia a fronte della pandemia che a fronte della crisi economica.  Da qui la nascita del  governo Draghi, nuovamente disegnato in forma di incrocio bilanciato tra i tecnici europeisti del primo ministro e l’insieme dei partiti, Meloni esclusa (nuova beneficiaria dello “smarcamento” ma anche lineare nel suo essere destra), per pasticciare un po’ le cose – ma con danno marginale – grazie alle loro risse quotidiane.

Nel frattempo Matteo Salvini ha raccolto fasti e insuccessi del padanismo secessionista, con la gestione Bossi travolta da malattia e scandali, negli stessi anni di avvio del grillismo, tra il 2010 e il 2012. Ciò dopo la gestione interinale di Bobo Maroni, finita con le primarie del 2013 (82%).  Lepenismo e sovranismo in Europa, scalata dell’elettorato di Forza Italia nell’Italia intera e soprattutto meridionale, vistoso rilancio elettorale grazie all’uso demagogico dei fattori d’allarme emergenti, soprattutto la “diga contro l’invasione dei migranti”.

La storia di M5S (e in parallelo della Lega) è dunque così riscritta in brevissima sintesi per permettere ora agli italiani di riflettere sul loro percorso di ricerca del “cambiamento”, così come lo hanno voluto assecondare in una decade tra le più complesse e difficili della nostra storia contemporanea, dal 2010 a oggi.

Verrebbe da dire: fino a quando il Paese deve pagare il conto di una sperimentazione con così pochi requisiti di qualità? Per i quali si intende una leva di gente preparata e ben tirocinata che trova nella teoria e nella pratica la risposta – nazionale e globale – alle soluzioni mancate e affronta con decisione il confronto con altri gruppi dirigenti invecchiati e legati solo al potere per conquistare il consenso su progetti sostenibili.  

Ma questo sembra ormai un paradigma del passato. Come se gli italiani si dovessero per forza misurare con il caso. Come se dovessero tutti i giorni usare i petardi per produrre illuminazione.

Bandierine e poste in gioco

In Cinquestelle l’evoluzione governativa appare oggi più chiaramente alternativa a quella movimentista e beffarda. Essa è nettamente interpretata da Luigi Di Maio, il dirigente probabilmente più cresciuto nell’ambito dei Cinquestelle e probabilmente la figura che, a costo di ridurre il fatturato elettorale al dato di una generazione che ha trovato il sentiero del proprio upgrading e abbandona ovviamente l’eskimo, potrebbe portare alla fine a chiarimento l’ambiguità.  Ambiguità a cui pare invece sia rimasta incollata una parte non irrilevante del PD, mentre il tempo del chiarimento che il governo Draghi ha messo a disposizione del sistema dei partiti ha consumato già metà delle sue potenzialità.

Lo stesso conflitto è in atto nella Lega. Qui il dirigente più cresciuto è certamente Giancarlo Giorgetti che rimuove giorno per giorno i colpi pesanti che il conflitto Stato-Regioni durante la pandemia ha fatto piovere sui bastioni del vecchio autonomismo leghista (Lombardia e Veneto soprattutto). E’ lui a raccogliere la domanda di responsabilità del sistema delle pmi del nord (imprenditori-operai) che non si sente allineato al PD, fino a lambire anche tratti di sintonia con la CGIL. Ed è lo stesso Giorgetti che sta collocando dirigenti nell’apparato delle tecnostrutture pubbliche che richiedono requisiti e che sta lasciando ballare da solo nel suo Papeete (locale indagato dalla Guardia di Finanza) il “fantasista”. Certamente un fantasista con energia e per niente stupido, che tuttavia non ha fatto in tempo a sottrarsi dal movimentismo irrazionale e populista proprio nel tempo in cui la cura Draghi rendeva quel populismo da mirabile a inguardabile, da salvifico a ridicolo, anche agli occhi di molti italiani infragiliti dalle crisi e dalle paure.

Questi due fronti – grillini e leghisti – sono stati quelli che hanno segnato con più rumore l’impeto del cambiamento negli ultimi dieci anni. Si potrebbe dire che hanno fatto perdere all’Italia tempo prezioso e occasioni competitive. Ma la democrazia in realtà non si misura così. E la storia ha sempre abbuonato qualcosa allo “stato nascente”. Ora entrambi hanno meno forza per il doppiogioco. Il fronte della legge Cartabia ha mostrato un certo governo interno dei mal di pancia dei Cinquestelle (con in campo prima Conte – che ancora qui si gioca la carriera sul valore aggiunto della mediazione –poi Bonafede). Mentre Salvini dissimula spesso sia sul fronte della pandemia, sia su quello dei migranti, ancora propenso a tenere in piedi il dualismo spudoratello nel suo complesso 2021. Intanto l’area liberaldemocratica ha fino ad ora fatto tentativi anche importanti e in più direzioni, ma ancora senza quadra generale e senza una teoria nazionale e internazionale capace di generare una classe dirigente alternativa. Del preoccupante stallo del PD si è detto e si potrebbe e dovrebbe dire di più con serio e quanto mai attuale approfondimento (sarà una puntata di questo “viaggio”). La meteora Renzi è parte di questa analisi. Ed è parte dell’ancora evidente dispersione del terreno centrale della politica italiana. Sono molti a concedere a Renzi le intuizioni che continua ad avere e ad esporre, ma gli italiani sono ormai indisponibili a dargli altro consenso. Circa Forza Italia il declino è in atto e si deve solo capire meglio il terreno di atterraggio.

Un po’ scherzosamente in queste pagine nei giorni scorsi abbiamo parlato dei guai dei partiti e del “pronto soccorso” virtualmente messo in piedi dal governo Draghi. Ogni tanto lo stesso Draghi alza il sopracciglio e ricorda che l’emergenza tollera pochissimo l’uso egocentrico delle “bandierine”. Ecco qui qualche altra considerazione in proposito, che non ha molto di scherzoso, perché il tempo passa e la partita sulla riqualificazione della democrazia italiana (su cui decidono gli elettori) resta tutta da giocare. I lettori comprendono il perché della priorità della nota di oggi: Lega e M5S fanno ora insieme il 45% dell’intero Parlamento (il 46,5% alla Camera e il 43% al Senato), dunque un reale protagonismo della elezione a febbraio 2022 del Capo dello Stato, snodo politico cruciale dell’intera prossima legislatura.


I precedenti articoli

Viaggio nel Pronto Soccorso dei partiti politici italiani – di Stefano Rolando

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Stefano Rolando

Stefano Rolando è nato a Milano nel 1948, dove si è laureato in Scienze Politiche e specializzato alla Scuola di direzione aziendale della Bocconi. Tra vita e lavoro si è da sempre articolato tra Milano e Roma. E' professore universitario, di ruolo dal 2001 all’Università IULM di Milano dopo essere stato dirigente alla Rai e all'Olivetti; direttore generale dell'Istituto Luce, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Consiglio Regionale della Lombardia. Insegna Comunicazione pubblica e politica e Public Branding. Ha scritto molti libri sia su media e comunicazione che di storia, politica e questioni identitarie. Da giovanissimo è stato segretario dei giovani repubblicani a Milano, poi ha partecipato al nuovo corso socialista tra anni settanta e ottanta. Poi a lungo non appartenente. Più di recente ha lavorato sul civismo progressista (Milano e Lombardia) e su un progetto politico post-azionista in relazione al quale è parte della direzione nazionale di Più Europa.

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