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Coronavirus: il nodo delle terapie intensive

Per quello che è dato di capire l’obiettivo delle misure di “distanziamento sociale” e di blocco delle attività produttive non è di bloccare la diffusione del virus (cosa impossibile finché non disporremo del vaccino o si diffonderà l’immunità di gregge) ma di rallentarla in modo da consentire al sistema sanitario ospedaliero di adeguarsi ed evitare che collassi come, purtroppo, è in parte avvenuto a Bergamo e Brescia.

Fin dall’inizio la dotazione di postazioni per terapia intensiva è stata individuata come uno dei fronti cruciali. Prima dell’inizio dell’emergenza le postazioni di terapia intensiva del SSN erano 5.343. Se fossero tante o poche non ho le competenze per dirlo, dalle notizie che ho letto la percentuale di utilizzo era tra il 60% e l’80%, il che sembrerebbe indicare una sostanziale adeguatezza della dotazione alle condizioni normali.

Evidentemente a fronte dell’emergenza coronavirus l’incremento di questa dotazione è divenuto una priorità per far sì che gli ammalati ricevano cure adeguate. Non c’è bisogno di essere tecnici per capire che si tratta di un impegno complesso che richiede interventi di tipo edilizio e impiantistico, implementazione di apparecchiature e assegnazione di personale medico e infermieristico dotato di specifiche competenze. Complesso ma non impossibile da attuarsi anche in tempi rapidi, come dimostrano alcune best practice come il Covid2 Columbus in Regione Lazio attivato, a quanto pare, in 15 giorni.

Secondo le notizie fornite ieri in conferenza stampa dal Commissario Arcuri il numero di postazioni di terapia intensiva attive nel nostro SSN è salito a 8.984 con un incremento di 3.641 unità pari al 68% (realizzato in tre/quattro settimane). Ipotizzando che nell’ambito della dotazione iniziale fosse possibile destinare il 30% (1.602 unità) al coronavirus senza pregiudicare la cura degli altri pazienti, la capienza di terapia intensiva per l’epidemia risulterebbe oggi pari a circa 5.250 unità (1.602+3.641=5.243).

Immagino che le autorità si stiano muovendo in base a un qualche modello previsivo dell’andamento dell’epidemia e del conseguente  fabbisogno di terapie intensive. Poiché tali previsioni non sono rese pubbliche, per valutare ciò che sta accadendo e ciò che potrà accadere,  non possiamo che basarci sui dati “storici” dell’andamento dei ricoveri in terapia intensiva fino a questo momento (colonne blu del grafico) e provare a immaginare degli scenari per farci un’idea.

A questo fine nel grafico sono stati inseriti due scenari “rozzi” (in quanto basati non su modelli epidemiologici ma sulla semplice proiezione di tassi di crescita costanti dei ricoveri in intensiva): uno più pessimistico al 5% (tasso medio ultima settimana, linea arancione) e uno più ottimistico al 3% (tasso medio ultimi 3gg, linea verde). Nel  primo caso la  capienza attuale (circa 5.250 postazioni) sarebbe “saturata” il 3 aprile, nel secondo l’8 aprile (senza tener conto degli squilibri territoriali).

Il Commissario non ha detto nulla sugli ulteriori incrementi in programma e sul loro stato di attuazione (speriamo lo faccia nei prossimi giorni); ma ipotizzando sia possibile replicare i risultati ottenuti in questa prima fase  si ottiene un ulteriore incremento di 3.650 unità nelle prossime tre-quattro settimane (temo si tratti di una previsione ottimistica perché gli incrementi più “semplici” da realizzare sono stati, presumibilmente, già realizzati ma serve, come detto, per farsi un’idea). Questa capienza ulteriore risulterebbe però insufficiente già dal 14 aprile nello scenario peggiore (e quindi saremmo in una situazione critica) e dal 26 aprile nello scenario ottimistico (meno critico).  

Le date indicate sono, lo ribadisco, frutto di un mero esercizio statistico non supportato da  modelli epidemiologici scientificamente corroborati. Naturalmente la speranza è che il tasso di crescita rallenti ulteriormente (anche se la cosa non sembra essere facile nel breve periodo) e che l’ulteriore incremento delle dotazioni sia realizzato in tempi ancora più rapidi (e anche questo non sembra semplice), ma -come cittadini- non abbiamo elementi per valutare queste possibilità.

Ciò che possiamo valutare è però il costo economico e sociale che stiamo pagando per le misure di “rallentamento” della crescita, che è molto alto e crescerà sempre di più se tali misure dovessero essere prorogate. Sarebbe quindi giusto che chi ha assunto queste decisioni fornisse molte più informazioni di quanto non faccia oggi su cosa pensa che succederà e cosa intende fare. D’altra parte finché le autorità continueranno a non rendere pubblici  i propri modelli,  le proprie previsioni e i propri piani  ciascuno, credo, ha il diritto a cercare di farsi un’idea come può.

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Daniele Fichera

Daniele Fichera. Ricercatore socioeconomico indipendente. Nato a Roma nel 1961 e laureato in Scienze Statistiche ed Economiche alla Sapienza dove è stato allievo di Paolo Sylos Labini, ha lavorato al centro studi dell’Eni, è stato a lungo direttore di ricerca al Censis di Giuseppe De Rita e dirigente d’azienda e business development manager presso grandi aziende di produzione e logistica italiane e internazionali. E’ stato inoltre assessore al Comune di Roma dal 1989 al 1993 e Consigliere regionale del Lazio dal 2005 al 2010 (assessore dal 2008 al 2010) e dal 2015 al 2018. Attualmente consulente per l’analisi dei dati e l’urban innovation per diverse società e centri di ricerca.

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