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Il Consiglio dei ministri, convocato, non si è però riunito ieri. Si doveva discutere del Recovery plan. Se ne riparlerà dopo il delicato passaggio parlamentare di oggi, con il governo Conte che dovrà verificare in Senato l’esistenza della sua maggioranza, chiamata a votare la riforma del Mes, il fondo europeo salva-Stati. Un passaggio che, dopo ore di fibrillazioni, sembra più tranquillo: ieri sera i gruppi di maggioranza e il governo hanno trovato l’intesa sul testo della risoluzione relativa alla riforma del Mes. L’accordo, spiegano fonti di governo, è ritenuto «soddisfacente» da tutti i gruppi, anche se Italia viva intende apporre la firma dei capigruppo in calce al testo solo dopo aver ascoltato l’intervento del premier Conte oggi in aula. Cominciata lunedì, la riunione del Consiglio dei ministri che doveva dare il via libera al piano per spendere i 209 miliardi che arriveranno dall’Europa con il Recovery plan, e alla norma sulla governance (chi comanderà e gestirà il piano), era stata rinviata a ieri dopo che la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, era stata costretta a tornare a casa perché positiva al Covid. Lunedì notte si è tenuto un preconsiglio per cercare di trovare l’accordo intorno al decreto legge sulla governance, cioè su chi avrà il potere di spendere i 209 miliardi. Ma invano. Italia Viva resta contraria alla cabina di regia immaginata dal premier e dalla quale resterebbe fuori, perché formata, oltre che dallo stesso Conte, solo dai ministri dell’Economia, Roberto Gualtieri (Pd), e dello Sviluppo, Stefano Patuanelli (5 Stelle). Ieri Matteo Renzi ha detto di «temere la rottura», pur sperando che non si arrivi a tanto e ha chiesto di convocare «una sessione ad hoc dopo la legge di bilancio. Poi si decide chi spende i soldi e come». Forza Italia s’è detta d’accordo con l’idea di Renzi (Tajani: «Ben venga una bicamerale per trovare le soluzioni migliori») ma il M5s ha subito bocciato la proposta per bocca del reggente Crimi. Spiega Enrico Marro sul CdS: «I renziani ribadiscono che non voterebbero una norma che accentra, secondo loro, i poteri nelle mani di Giuseppe Conte, il quale nominerebbe anche i sei manager che guiderebbero una tecnostruttura di una novantina di esperti di settore chiamati a gestire l’attuazione dei programmi del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, suddiviso in sei capitoli: rivoluzione verde, digitale, infrastrutture, istruzione, inclusione sociale, sanità. A questo punto il governo aspetterà il voto di oggi sul Mes e forse anche il Consiglio europeo di giovedì e venerdì, chiamato a ratificare a Bruxelles la stessa riforma del fondo salva-Stati e a sciogliere il nodo del veto di Polonia e Ungheria sul bilancio europeo, che rischia di congelare lo stesso Next generation Eu, cioè il piano europeo dal quale dovrebbero appunto arrivare al nostro Paese i 209 miliardi (tra prestiti e trasferimenti)». Il rinvio del Consiglio dei ministri avrebbe fortemente irritato la Merkel. Ursula von der Leyen ha negato che il sistema scelto (finora) da Conte per spendere i soldi del Recovery sia stato suggerito da Bruxelles.
«Alla fine anche Giuseppe Conte il mite, quello che nel 2019 si presentò in Parlamento giurando che l’efficacia del nuovo governo non si sarebbe misurata con l’arroganza, va a sbattere contro un mal calcolato atto di forza. Come Matteo Renzi sul referendum costituzionale. Come Matteo Salvini sui pieni poteri. Anzi di più, perché l’idea di affidare il gigantesco sforzo del Recovery Plan a un areopago di manager, concedendogli addirittura un’autorità sostitutiva rispetto alle ordinarie catene di decisione e comando, è una sfida di qualità superiore a ogni precedente strappo, a ogni storico trascorso italiano in materia di emergenze» [Perina, Sta].
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