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Il grande giornalista che considerava il “vocabolario” il libro preferito

Di prima mattina filtra in rete la notizia della scomparsa ieri sera di Sergio Zavoli. A 96 anni, diventa una notizia attesa, alla quale i grandi giornali si preparano. Così che Antonio Carioti sul Corriere.it  è tra i primi a proporre un ricordo molto nutrito di chi chiama “giornalista e maestro della televisione italiana” attribuendogli in poche righe profilo e storia di grande portata: “Competenza, serietà, cultura vera, empatia e partecipazione emotiva (mai però troppo enfatizzate), tatto nel rivolgere agli interlocutori anche le domande più scottanti. Un cronista di razza, un maestro della comunicazione radiofonica e televisiva, capace di inventare nuove formule e pronto a portare nelle case degli italiani argomenti delicati e difficili da trattare oltre che presidente della Rai per sei anni, dal 1980 al 1986, Zavoli ne era stato per tanto tempo in precedenza e ne fu ancora in seguito un volto giornalistico tra i più prestigiosi e riconoscibili, un’autentica figura di riferimento per il pubblico, senza poi contare il suo ruolo istituzionale come presidente della commissione di Vigilanza, carica ricoperta in età già avanzata, dal 2009 al 2013”.

L’ultimo affettuoso incontro con lui il 13 marzo del 2017 alla Biblioteca del Senato, che ancora presiedeva e animava con una forte programmazione di eventi, tra i quali il mio libro-intervista con Giovanni Pieraccini su L’insufficienza riformatrice. Un intervento accorato il suo, su giovani e anziani, sulla qualità della politica, sui percorsi della memoria. Poi le cose di sempre, la vita, lo sguardo avanti, l’idea di vedersi a breve.

Sergio Zavoli alla presentazione del libro intervista con Ieraccini – (Biblioteca del Senato, Roma, 13.3.2017)

Nel 2008 avevo dedicato due pagine del mio “Quarantotto” (edito da Bompiani) a Sergio Zavoli e al mio lavoro con lui in Rai, fino alle conversazioni più recenti.

Un brano che ripropongo oggi come congedo, malgrado l’evidenza dell’età, per me impreparato. Salvo un quelle impercettibili sintonie emotive per le quali questa domenica, in una spoglia bancarella di libri in viale Parioli a Roma, tra romanzi dell’ottocento russo e Cime tempestose di Emily Brontë, faceva capolino un saggio di Sergio Zavoli di circa 400 pagine del 1997 dedicato alle tre emergenze della giustizia italiana (Ma quale giustizia, Rai-Eri/Piemme), dedicato alla figlia Valentina, scritto “per indignare, cioè per cogliere ciò che non è degno di un grande Paese”. Libro a me ignoto. Acquistato con il pensiero che, nel tempo, si fanno anche questi dialoghi immateriali. Era due giorni fa.

Escono ora a distanza di qualche ora dalla notizia le sue risposte al “questionario di Proust”, a firma di Paolo Di Stefano, sempre sul Corriere. Due battute lapidarie (risalenti al 2005) non posso trascurarle. La prima data per eccesso di verità. Libro preferito?: “Il vocabolario” (per chi si è chinato insieme a lui su mille modifiche di parole in estenuanti estetiche, verissimo). L’altra data per eccesso di paura. Quale sarebbe la disgrazia più grande?: “Morire senza accorgermene, per esempio nel sonno” (chi non lo vorrebbe, ma anche chi non si prenderebbe ansia a pensarlo?).

Da “Quarantotto – Argomenti per un bilancio generazionale” (Bompiani, 2008)Sergio Zavoli, la radio e la tv dei fondatori

Due anni di intenso rapporto di lavoro alla Rai con Sergio Zavoli, arrivato (per primo) dall’interno alla presidenza dell’azienda, nel 1980. Poi la mia necessità di misurarmi in una esperienza di line, di operatività. Ma da quel tempo un’irriducibile amicizia. Nell’ultimo nostro incontro, nella sua bella villa a Monte Porzio Catone, mi ha regalato le sue raccolte di versi poetici. In una delle quali una poesia, dedicata alla sua città “lasciata con un arco di fuochi accesi dagli amici sottovento per scaldarmi le mura”, è intitolata 1948. Nell’ultima raccolta, L’orlo delle cose, edita da Mondadori, annota: “Voglio volermi bene / stare con me, provare / e vedere l’effetto / che mi faccio”. Gli ho detto che mi sarebbe piaciuto averla fatta io questa riflessione.

Quando avevo credo dodici o tredici anni la mia bibbia per decifrare il passato prossimo era costituita da due dischi finiti in casa forse a corredo di qualche abbonamento alle riviste di Mondadori. Uno si chiamava Dieci anni della nostra vita. L’altro Venti anni della nostra vita. Erano stati fatti insieme (sicuramente uno dei due) da Enzo Biagi e Sergio Zavoli il quale, usava la sua voce “confidenziale”, per raccontare tutto l’udibile dell’Italia delle mille lire al mese.

Storia, storie, citazioni, voci celebri, musica, drammi, felicità. Quei due dischi sono stati certamente ciò che mi ha fatto maggiormente decifrare la vita quotidiana della gioventù dei miei genitori. Il giornalismo di questi due diversi – e forse neppure tanto amici – grandi giornalisti (uno emiliano, l’altro romagnolo) mi piaceva immensamente. Faceva frasi brevi e icastiche. Ti offriva una pausa per pensare ogni volta. Era armonico ma sorprendente. Era scritto con la testa di chi ascoltava. Di lì a poco – come per tutta la mia generazione – Sergio Zavoli doveva diventare un vero mito, che ci teneva inchiodati i primi pomeriggi della prima estate alla tv per gli indimenticabili “Processi alla tappa” in cui Anquetil era Anquetil ma persino Vito Taccone era Vito Taccone.

Anni ’60 – Processo alla tappa – Sergio Zavoli intervista Vittorio Adorni

Senza la premessa non si capirebbe perché quando finii l’esperienza di assistentato alla Rai di Paolo Grassi ero pronto, ma proprio pronto, per un qualunque lavoro di linea. Ovvero di produzione. Sarò sempre grato a Paolo Grassi  per avermi fatto fare questo salto in alto nella mia esperienza professionale. E a Claudio Martelli per avermi consentito di unire la conoscenza dell’azienda alla partecipazione in prima linea di una stagione di politica innovativa sulla televisione. Ma il mio cuore andava alle redazioni, alle moviole, al lavoro degli inviati, ai documentaristi, ai programmisti. Balenava per me una proposta di Emmanuele Milano di andare a Raiuno. E balenava persino un’ipotesi di direzione dei programmi sperimentali. Ma nella trincea della politica scoppiarono tempeste. Quando si capì che la scelta per il nuovo presidente era caduta su un interno, su un giornalista, su chi – prima volta nella storia di quell’azienda – aveva fatto tutta la storia e tutta la filiera dal basso all’alto della Rai dalle origini, non ci volle molto per capire che quella persona era Sergio Zavoli. Poco dopo la proposta di Sergio di restare lì, nel lato destro del celebrato settimo piano. Prevalse una punta di felicità per questi esiti e il rinvio, fatto con serenità, di un altro tempo per l’operatività produttiva (che sarebbe arrivato un paio d’anni dopo con l’opportunità di andare a dirigere – distaccato dalla Rai – l’Istituto Luce).

La felicità non solo riconduceva all’adolescenza. Ma riconduceva al mondo vellutato di un riminese, amico fraterno di Federico Fellini e di Tonino Guerra. Riconduceva al garbo di una personalità che per quanto un po’ autoriflesso aveva un tratto impagabile per tutti. Riconduceva al salotto editoriale italiano e alla saga dei “premi”, il primo dei quali mi entusiasmò perché fu quello che – Zavoli presidente della giuria – portò al Gesualdo Bufalino della Diceria dell’untore, libro di maestria lessicale pubblicato dall’allora ancora “piccola” casa di Elvira Sellerio, la vittoria del Campiello. Riconduceva ad una nuova forma culturale che avrebbe potuto continuare a premiare la crescente centralità dei socialisti alla Rai. Dopo il mitico impresario teatrale ora il mitico giornalista della radio e della tv. La radio e la tv dei fondatori. Si trattava di stare al centro dei rapporti professionali, al centro dei rapporti istituzionali, al centro del cambiamento del sistema. La partita era nuova e delicata. Alle porte del sistema si era presentato in quel periodo qualcuno che non aveva intenzione di accontentarsi delle briciole. Il cavaliere Silvio Berlusconi. E di lì a poco la trattativa cominciò. Con Sergio ero diventato (e sono rimasto per tutta la vita) amico. In una ricerca da poco svolta e che sarà pubblicata su “comunicazione e politica tra gli anni settanta e novanta” investendo soprattutto il Partito Socialista e la figura di Craxi, si fa riferimento, tra l’altro, alla febbrile trattativa per il Mundialito (Berlusconi in delegazione personalmente con Gianni Letta e l’avvocato Bonomo; noi con Zavoli e Willy De Luca, l’avvocato Zoccali, Mimmo Giordano Zir e io stesso). Quella trattativa occupa un posto di rilievo nel curriculum vitae che Silvio Berlusconi tuttora accredita per raccontare la sua vita. Segno, probabilmente, che le abbiamo buscate. Anche se la nostra posizione nello spettro della politica a sostegno del servizio pubblico era quella di chi non pensava di chiudere le porte di fronte al cambiamento possibile. E la Rai poteva anche essere cambiata in meglio da una concorrenza sensata. Così che Sergio, in questo colloquio, parla di quell’occasione come di un onesto pareggio. A Sergio Zavoli – che è stato nella mia vita con la sua voce quando era un ragazzino, con il lavoro quando avevo trent’anni, con il gusto della memoria ora trenta anni dopo – ho potuto parlare facilmente (come con pochi altri) di politica e di mogli, di progetti e di figli, di carte e di tormenti. Mi ha raccontato nel tempo cose avvincenti.

Rolando e Sergio Zavoli (anni 80)

Quella di Federico Fellini che lo portava alla chetichella a Fiumicino, dove finisce la pista di decollo, per farlo sdraiare in un fosso, l’uno vicino all’altro, spalle alla pista, e vedere da sotto a pochi metri la pancia degli aeroplani che staccano da terra, in un bigbang acustico e con l’evidenza dei bulloni che chiudono la lamiera, resta tra i ricordi più cinematografici.

Sergio Zavoli con Federico Fellini e Giulietta Masina

Ho avuto con lui di recente una lunga conversazione che ha spaziato su quegli anni ottanta, soprattutto nel rapporto tra la politica (i socialisti) e il sistema dell’informazione. Senza riferire il dettaglio delle argomentazioni, Sergio Zavoli – che aveva voluto fare nell’agosto del 1997 un’intervista a Craxi ad Hammamet – ha precisa memoria di una condizione di amore e odio che ha riguardato, nell’epoca di Craxi, il rapporto tra la Rai e i socialisti. “Per errori e per vincoli, la Rai non è stata uno strumento davvero cavalcato da Craxi per il suo progetto. Qui e là nel tempo ha messo dei pretoriani. Ma ciò non ha cambiato molto le cose. Diversa cosa è dire che nell’ambito della televisione pubblica hanno avuto spazio contenuti culturali e politici che si rifacevano al pensiero socialista. Qui credo che – in larga parte in piena autonomia intellettuale – ci sia una traccia ben visibile, che si iscrive nella legittimità di un pluralismo voluto dalle leggi. Anche se la politica di breve respiro preferirebbe più propaganda che analisi, credo che sugli italiani quel genere di programmi (reti e tg) hanno avuto peso accompagnandone la formazione di opinione.

Sergio Zavoli ed Enrico Manca, entrambi presidenti della Rai

E memoria vi è anche per tratteggiare luci e ombre di una personalità complessa come Craxi. Sergio era a Berlino con lui e Occhetto in un passaggio probabilmente decisivo della storia della sinistra italiana, quando cioè il vicepresidente dell’Internazionale Socialista, caduto il muro e il comunismo, accredita il partito che raccoglie la tradizione comunista italiana nell’ambito dell’organizzazione – questa la sua natura – “socialdemocratica” europea, col pensiero a chiudere così il duello durato settant’anni. “Ricordo il senso di capovolgimento di una lunga storia negli occhi di Craxi e le autentiche lacrime di Occhetto a Berlino così come ricordo la fine di quelle lacrime di Occhetto appena rimettemmo piede in Italia dove Craxi da sdoganatore diventava nuovamente un nemico”.  E ancora per indagare meglio il rapporto dello stesso Craxi con il mondo dei media e con i maggiori giornalisti del tempo. “Se per ‘media’ si intendono i giornalisti e pure i grandi giornalisti, penso che Craxi se ne sia completamente infischiato. Non aveva simpatia per nessuno di loro. Detestava Montanelli, considerava poco o niente Biagi, pensava che Scalfari appartenesse agli avversari politici non al giornalismo. E siccome non era stupido, sapeva che i maggiori media italiani – a cominciare dal Corriere che era feroce anche riflettendo la posizione della FIAT – gli erano strutturalmente contro. Imparò a fare politica, se così si può dire, indipendentemente dai media italiani”.

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Stefano Rolando

Stefano Rolando è nato a Milano nel 1948, dove si è laureato in Scienze Politiche e specializzato alla Scuola di direzione aziendale della Bocconi. Tra vita e lavoro si è da sempre articolato tra Milano e Roma. E' professore universitario, di ruolo dal 2001 all’Università IULM di Milano dopo essere stato dirigente alla Rai e all'Olivetti; direttore generale dell'Istituto Luce, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Consiglio Regionale della Lombardia. Insegna Comunicazione pubblica e politica e Public Branding. Ha scritto molti libri sia su media e comunicazione che di storia, politica e questioni identitarie. Da giovanissimo è stato segretario dei giovani repubblicani a Milano, poi ha partecipato al nuovo corso socialista tra anni settanta e ottanta. Poi a lungo non appartenente. Più di recente ha lavorato sul civismo progressista (Milano e Lombardia) e su un progetto politico post-azionista in relazione al quale è parte della direzione nazionale di Più Europa.

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