Una striscia liquida nera, lunga, densa, imbratta l’azzurro cristallino dell’Oceano Indiano, di fronte all’arcipelago delle Mauritius, inchiostro che cola su un dipinto bellissimo. In questi giorni si avviano le azioni di raccolta del combustibile, fuoriuscito dalla nave cisterna MV Wakashio, incagliata dal 25 luglio scorso proprio nei pressi della barriera corallina a sud-est dell’isola principale, con a bordo 200 tonnellate di diesel e 3800 di benzina, secondo quanto riportato dalle fonti. Il lavoro del governo locale e dei volontari, sempre preziosi in simili disgrazie, verrà sostenuto dai governi francese e giapponese.
L’ennesimo incidente legato al petrolio e ai suoi derivati, l’ennesima ferita inferta al mare e ai suoi tesori, siano essi naturali, si intende la biodiversità, siano essi relativi alle entrate del settore turistico che, in paesi come le Mauritius, sono la fonte primaria di reddito.
Quella colpita è la costa di Pointe d’Esny, zona umida protetta secondo la Convenzione di Ramsar, vicina al parco marino di Blue Bay, in un arcipelago che ha fatto della conservazione della sua natura da sogno la propria bandiera.
Dichiarare l’emergenza nazionale non è purtroppo sufficiente a lenire la gravità del problema, calcolando gli immensi costi in termini di rischio ambientale (oltre che economici) che esso comporta.
Ormai gli incidenti che vedono coinvolto il greggio o i combustibili in mare sono all’ordine del giorno, numerosissimi ogni anno, troppi. Non occorre essere âgés per ricordare le catastrofiche immagini dei 40 milioni di litri di greggio riversati nel golfo di Alaska dalla superpetroliera Exxon Valdez nel 1989; o della macchia nera che ferì le coste della Galizia nel novembre del 2002, fuoriuscita dalla petroliera Prestige spezzata in due poco più al largo; oppure quelle altrettanto drammatiche della piattaforma Deepwater Horizon nel Golfo del Messico (2010), solo per citarne alcune clamorose. Ma anche nel nostro territorio vantiamo qualche primato, basti pensare al naufragio della petroliera Haven di fronte a Genova, nel 1991, durante il quale bruciarono in mare oltre 90.000 tonnellate di greggio. E per non andare troppo lontano nel tempo, è dello scorso 29 maggio lo sversamento di 20 tonnellate di gasolio nel fiume Ambarnaya, nord della Russia, ovviamente dirette al mare, di cui al momento non abbiamo aggiornamenti.
Ovunque il dramma abbia luogo e in qualunque modalità, qualsiasi habitat colpisca, le conseguenze sono destinate a protrarsi nel tempo, a causa dell’impossibilità di raccogliere (non recuperare) tutto il materiale disperso, che si arena sulla terraferma, sporca il piumaggio o il mantello degli animali portandoli spesso alla morte per ingestione o ipotermia, particolarmente i cosiddetti oli pesanti come il greggio; in acqua semplicemente si disperde, trasportato dalle correnti, o in parte evapora, come gli oli leggeri quali diesel e benzina, altamente tossici, inducendo la morte per ingestione e inalazione e inquinando tutto il ciclo idrico.
Un processo irreversibile che nei decenni continua a farci domandare retoricamente, senza risposta, se ne valga davvero la pena. Se l’era dei combustibili fossili, che tanto hanno arricchito le multinazionali e impoverito l’ecosistema, debba finire per lasciare il posto a un’energia più pulita, rinnovabile e sicura. Forse non proprio a impatto zero, in quanto l’azione antropica non di sussistenza, ovvero la produzione industriale è per sua “natura” impattante, laddove usa risorse in grandi quantità, costruisce strutture e infrastrutture e deve avere una resa super efficiente, in un pianeta con oltre 7 miliardi di abitanti umani. Ciò nonostante c’è la possibilità di un compromesso, raggiungibile con l’impegno di ogni paese e di ogni cittadino, della politica in primis ma anche dell’individuo, fiduciosi tutti che non si voglia davvero superare il punto di non ritorno.
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