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La peste dell’insonnia da “Cent’anni di solitudine” di G.G. Marquez

In un tempo imprecisato a Macondo, un villaggio sconosciuto, gli abitanti sono afflitti dalla peste dell’insonnia.

“Se non dormiremo, tanto meglio… la vita ci renderà di più”, diceva Josè Arcadio Bue dia con tanto buon umore… Erano tutti contenti di non dormire perché c’era tanto da fare che il tempo bastava appena e nessuno si preoccupò dell’inutile abitudine di dormire. Ma il problema non era l’insonnia dal momento che nessuno provava stanchezza e si poteva restare vigili senza  provare alcuna fatica, quanto l’evoluzione drammatica della peste che portava alla perdita della memoria. “Si cominciavano a cancellare dalla memoria prima i ricordi dell’infanzia, poi il nome e il significato delle cose e infine si smarriva l’identità delle persone e persino la coscienza del proprio essere…” La situazione era paralizzante.

Si pensò di segnare ogni oggetto con un’iscrizione che ne ricordasse il nome e l’uso: tavola, sedia, orologio, porta, letto, muri… vacca, capra , porco ecc ed ad ogni oggetto si specificava l’utilizzo che se ne poteva fare “Questa è la vacca, bisogna mungerla tutte le mattine in modo che produca il latte che bisogna far bollire per aggiungerlo al caffè e fare il caffellatte”. Cosi si “viveva in una realtà sdrucciolosa… catturata dalle parole che sarebbe finita quando si sarebbe dimenticato il valore della parola scritta”.

A tutto questo si aggiungeva il dramma che a Macondo nessuno riusciva più a sognare. Alla dimenticanza delle cose si affiancava un dramma ancora peggiore: l’impossibilità di immaginare, di fantasticare per evadere da una realtà che diveniva ogni giorno sempre più incomprensibile e insignificante: nessuno si sarebbe più salvato. L’uomo eternamente vigile, immerso nelle attività più frenetiche non solo avrebbe smarrito il senso delle cose ma anche della vita stessa, avrebbe perso la possibilità di pensare ad un mondo e ad un modo di felicità. Come si può vivere senza sognare se la realizzazione di noi stessi passa attraverso i nostri sogni?

La vita può partire solo da un sogno, da un progetto apparentemente folle verso un orizzonte che si immagina bello.

L’opera di Marquez appartiene al genere del realismo magico e per questo si presta a svariate interpretazioni, io ci vedo una condanna, neanche troppo velata, di una società che ha smarrito i valori autentici della vita per inseguire un progresso “di quantità più che di qualità”. Nella corsa affannosa per il guadagno l’uomo perde il valore delle cose più autentiche e diventa incapace di relazionarsi col mondo, resta privo di sogni e quindi di cielo. Il villaggio di Macondo si salverà grazie ad una pozione magica offerta da un “dormiente” che arriva dal passato a restituire il fascino del sogno, da un mondo arcaico che il progresso aveva voluto annullare ma di cui l’uomo non può fare a meno  se non  a rischio di disumanizzazione.

Mi chiedo chi potrà salvare i semidesti dei nostri tempi incapaci di vegliare e di sognare, senza pensiero e senza sogni, sospesi tra passato e presente e senza un futuro credibile che urlano, si dimenano ma soprattutto NEGANO… l’evidenza da cui ricominciare per ripartire.

“L’altra Euridice” di Italo Calvino

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Antonella Botti

Sono nata a Salerno il 3 Marzo del 1959 ma vivo da sempre a Sessa Cilento, un piccolo paese di circa 1300 anime del Parco Nazionale del Cilento. Ho studiato al Liceo classico “Parmenide” di Vallo della Lucania ed ho conseguito la laurea in Lettere moderne. Sono entrata nella scuola come vincitrice di concorso nel 1987, attualmente insegno Letteratura Italiana e Latino al Liceo Scientifico di Vallo della Lucania. Ho pubblicato due testi di storia locale: "La lapidazione di Santi Stefano" e "Viaggio del tempo nel sogno della memoria". Da qualche mese gestisco un blog, una sorta di necessità interiore che mi porta a reagire al pessimismo della ragione con l’ottimismo della volontà. I tempi sono difficili: non sono possibili "fughe immobili".

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