Classici contemporanei

“La Vertigine” (Pascoli) e la condizione umana del nostro tempo

Prima di dare inizio alla mia collaborazione alla rivista online MOONDO  attraverso la rubrica “Classici contemporanei, riletture in chiave moderna” mi sento in dovere di ringraziare la redazione che mostrandomi fiducia mi ha dato l’opportunità di entrare a far parte di un gruppo di firme prestigiose e di occupare uno spazio culturale di approfondimenti e di discussioni tutto mio. Non sono una giornalista di professione, lavoro come docente nella scuola pubblica oggi più che mai preoccupata per una generazione di giovani esposti ad ogni tipo di provocazione, spesso sfiduciata da una società caotica ed effimera che perde di vista la ricerca dell’essenziale cioè del Bene e del Bello platonicamente inteso. Di fronte alla deriva verso cui inconsapevolmente tendiamo sono sempre più convinta che la cultura sia un’arma privilegiata per affrontare con forza e determinazione la complessa problematicità dell’esistenza e che lo studio della poesia e della letteratura in genere possano contribuire a creare bellezza interiore per un mondo migliore e a favore di una realtà travolta troppo frequentemente da sollecitazioni frivole e passeggere che la disumanizzano e la rendono incapace di recuperare  i valori autentici che fanno di una esistenza una vita degna di essere vissuta per sé e per gli altri.

Senza avere alcuna pretesa di originalità o di essere pioniera di chissà quale grande strategia educativa mi impegnerò a favore di quella Bellezza che Dostoevskij riteneva capace di salvare il mondo e che può muovere anche dall’armonia di una bella pagina in prosa o in versi. Ritengo doveroso anche ringraziare quanti vorranno leggere la mia rubrica e a quanti vorranno arricchirla con osservazioni e contributi. A tutti loro l’appuntamento è per ogni martedì. 

Inizio questo percorso partendo da un testo poetico di G. Pascoli: “LA VERTIGINE” che, a mio giudizio ben rappresenta la condizione umana del nostro tempo. Si racconta di un fanciullo che aveva perduto il senso della gravità…

I

Uomini, se in voi guardo, il mio spavento

cresce nel cuore. Io senza voce e moto

voi vedo immersi nell’eterno vento;

voi vedo, fermi i brevi piedi al loto,

ai sassi, all’erbe dell’aerea terra,

abbandonarvi e pender giù nel vuoto.

Oh! voi non siete il bosco, che s’afferra

con le radici, e non si getta in aria

se d’altrettanto non va su, sotterra!

Oh! voi non siete il mare, cui contraria

regge una forza, un soffio che s’effonde,

laggiù, dal cielo, e che giammai non varia.

Eternamente il mar selvaggio l’onde

protende al cupo; e un alito incessante

piano al suo rauco rantolar risponde.

Ma voi… Chi ferma a voi quassù le piante?

Vero è che andate, gli occhi e il cuore stretti

a questa informe oscurità volante;

che fisso il mento a gli anelanti petti,

andate, ingombri dell’oblio che nega,

penduli, o voi che vi credete eretti!

Ma quando il capo e l’occhio vi si piega

giù per l’abisso in cui lontan lontano

in fondo in fondo è il luccichìo di Vega…?

Allora io, sempre, io l’una e l’altra mano

getto a una rupe, a un albero, a uno stelo,

a un filo d’erba, per l’orror del vano!

a un nulla, qui, per non cadere in cielo!

II

Oh! se la notte, almeno lei, non fosse!

Qual freddo orrore pendere su quelle

lontane, fredde, bianche azzurre e rosse,

su quell’immenso baratro di stelle,

sopra quei gruppi, sopra quelli ammassi,

quel seminìo, quel polverìo di stelle!

Su quell’immenso baratro tu passi

correndo, o Terra, e non sei mai trascorsa,

con noi pendenti, in grande oblìo, dai sassi.

Io veglio. In cuor mi venta la tua corsa.

Veglio. Mi fissa di laggiù coi tondi

occhi, tutta la notte, la Grande Orsa:

se mi si svella, se mi si sprofondi

l’essere, tutto l’essere, in quel mare

d’astri, in quel cupo vortice di mondi!

veder d’attimo in attimo più chiare

le costellazïoni, il firmamento

crescere sotto il mio precipitare!

precipitare languido, sgomento,

nullo, senza più peso e senza senso.

sprofondar d’un millennio ogni momento!

di là da ciò che vedo e ciò che penso,

non trovar fondo, non trovar mai posa,

da spazio immenso ad altro spazio immenso;

forse, giù giù, via via, sperar… che cosa?

La sosta! Il fine! Il termine ultimo! Io,

io te, di nebulosa in nebulosa,

di cielo in cielo, in vano e sempre, Dio.

Photo credit jennyfriedrichs , by Pixabay

Mai come oggi questi versi possono turbare tanto perché mai come adesso si avverte una caduta libera di uomini e di senso. Eppure Platone scriveva:”Noi non siamo come le piante della terra perché la nostra patria è il cielo […] dove Dio tenendo sospesa la nostra testa […] tiene sospeso l’intero nostro corpo che, perciò, è eretto” (Timeo 90). Il filosofo greco sottolineava con l’efficacia di questa immagine, che l’uomo, anche se si occupa solo della terra, in realtà lo può fare perché porta il suo sguardo al di sopra delle cose che popolano la terra.

Per la sua posizione eretta l’uomo, in effetti, ha dinanzi a sé un orizzonte o se preferiamo un pan-orama dal greco “horao”(vedere). È, pertanto, destinato a vedere non solo cose terrene come succede agli animali ma anche l’essenza delle cose, depurate dalla materia terrena e che Platone chiama idee.

Dalla terra al cielo è dunque l’itinerario che l’uomo dovrebbe compiere nel suo passare dalla visione sensibile a quello intellegibile. Tale itinerario, destinatogli dagli Dei, pare sia stato modificato nelle sue direttrici per cui non un’ascensione ma un precipitare sembra essere oggi il destino umano. Alla radice della perdita di questa verticalità c’è, a mio parere, la morte della filosofia che letteralmente dovrebbe significare aver cura (philo) del sapere (sophia). E se sophia riflette il senso di Phaos (luce) allora la filosofia significa anche aver cura per ciò che si manifesta alla luce, distinguere la luce dalle tenebre, l’epistema dalla doxa, la verità dalle opinione e, parafrasando Platone, i filosofi, amanti dello spettacolo della verità, dai filodoxi, amanti semplicemente “degli spettacoli”. Purtroppo la terra pullula di filodoxi che, arroganti nella loro presunta superiorità, collocati anche in posti di responsabilità, vivono come in un sogno, confondendo la loro doxa con l’aletheia per cui, è ancora Platone a parlare, “Se pure qualcosa essi conoscono non ne avremo mai invidia”. (Repubblica 476,e).

La loro inquietante presenza, senza essenza esistenziale, è la ragione dell’assenza di fondamenti che, a differenza delle doxa, non si limitano solo ad affermare qualcosa ma sono in grado di mostrare la necessità della loro affermazione. I filodoxi, invece, urlano, parlano, ma di niente, affermano tutto e il contrario di tutto. Pronti ad esaltare o sacrificare, a seconda della convenienza, tutti coloro che li circondano, trascinano nel “vertiginoso vuoto questa informe oscurità volante che è la terra”.

L’unica soluzione possibile è aggrapparsi fino all’ultimo filo d’erba per non precipitare mantenendo  sempre lo sguardo alto per non lasciarsi contaminare, disposti a pagare qualsiasi prezzo per questa scelta controcorrente.

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Antonella Botti

Sono nata a Salerno il 3 Marzo del 1959 ma vivo da sempre a Sessa Cilento, un piccolo paese di circa 1300 anime del Parco Nazionale del Cilento. Ho studiato al Liceo classico “Parmenide” di Vallo della Lucania ed ho conseguito la laurea in Lettere moderne. Sono entrata nella scuola come vincitrice di concorso nel 1987, attualmente insegno Letteratura Italiana e Latino al Liceo Scientifico di Vallo della Lucania. Ho pubblicato due testi di storia locale: "La lapidazione di Santi Stefano" e "Viaggio del tempo nel sogno della memoria". Da qualche mese gestisco un blog, una sorta di necessità interiore che mi porta a reagire al pessimismo della ragione con l’ottimismo della volontà. I tempi sono difficili: non sono possibili "fughe immobili".

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