La Finestra sul Cortile

L’Italia dell’inno di Papeete lancia la sfida

Il 3 agosto la storia politica italiana si è spostata dalla Sala delle Virtù del Quirinale, dalla Sala Verde di Palazzo Chigi, dalla scrivania di Quintino Sella in via XX Settembre, alla consolle del Papeete Beach a Milano Marittima.

Salvini a Milano Marittima

Nessun analista politico avrebbe immaginato e scritto che il segnale della crisi di governo sarebbe avvenuto nel quadro della più meticolosa e apparentemente casuale ricerca di una identificazione con i caratteri più plateali dell’Italia civicamente inconsistente: corpi accalcati cosparsi di abbronzante, altoparlanti a squarciagola dal podio di balera sulla spiaggia, cubiste predisposte al dimenamento e, infine, manovra alla consolle per sintonizzare la colonna sonora sull’Inno di Mameli. Qui il ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio è passato all’azione. Dalla consolle alla pista, dalla musica dance alle note risorgimentali, piegandosi a torso nudo nello scimiottamento del twist sulla cubista più predisposta.

Già, la linea comunicativa populista – come quella di Trump – è quella, non da oggi. Dove c’è assembramento popolare lì risuona l’Inno di Papeete: “io sono come voi, uguale. Trump aizza ancora gli editorialisti del NYT che possono scrivere: “Falso, lui è miliardario e loro no”. Qui i giornalisti spesso abbuonano all’ormai stagionato militante il gruzzolo intascato da un pezzo con gli stipendi politici. E popolarizzano il travestimento. Da Giuseppe Mazzini e la sua “religione della patria” a Carlo Azeglio Ciampi che ha riconsegnato l’inno di Mameli anche all’Italia fuori dallo sport, generazioni di statisti si sono rivoltati nella tomba. Anche questo era messo nel conto perché “io sono come voi” comporta anche il taglio della memoria e il disprezzo per la storia delle solennità. Anche in questo Salvini è figlio della Lega che, dalle origini, ha spiegato agli italiani a cosa serve, in realtà, il tricolore, una volta proceduto alla defecazione.

Finito il ballo sull’accento dell’Italia chiamò, Salvini è tornato a sedersi accanto a Lorenzo Fontana, Claudio Durigon e Lucia Borgonzoni (tutti membri del governo) che lo hanno vivamente complimentato alzando i calici e consentendogli di dire che “piuttosto di niente è meglio piuttosto”, cioè che anziché continuare a incrociare le spade con i grillini meglio andare alle urne. 

Da lì, dal margine della balera del Papeete, siamo tutti stati scaraventati nella rissa di Ferragosto circa i tempi della crisi, lo scontro tra elezioni subito oppure rinvio – con governo tecnico-istituzionale – a dopo la Finanziaria, consentendo anche a svariate altre ipotesi (che Salvini ha chiamato “inciuci e inciucetti”) di entrare in campo.

Dirigenti e militanti di tutto il quadro politico italiano hanno fatto in fretta e furia lo zaino e si sono accampati già in assetto di battaglia nella vasta prateria che contiene da sempre le crisi di governo.

Ci sono state, nella storia repubblicana, crisi parlamentari, crisi extraparlamentari, crisi per assenza di numeri, crisi per mancanza di coperture finanziarie, crisi per soprassalti di coscienza, crisi per pressioni internazionali, crisi per esaurimento di coalizioni. Un vasto repertorio inventariato dalle scienze politiche. Oggi si aggiunge la crisi papeetica, quella motivata dalla sintonia culturale tra il leghismo corsaiolo e l’inquinamento demagogico di una parte dell’Italia che il governo gialloverde – forse rendendo un servizio a possibili future redenzioni – ha legittimato a riconoscersi e a manifestarsi. Come scrivono Michele Masneri e Andrea Minuz sul Foglio “le scorribande di Salvini, tra cubiste e sagre del cinghiale, sono il simbolo del nuovo Grande Sdegno Nazionale, cuore della contesa elettorale”. Anche se qui si capisce che la messinscena nasconde una verità interna alla Lega: il rischio di conflitto con le proprie trincee lombardo-venete per l’impasse riguardante le autonomie rafforzate che stando al governo Salvini non riesce (o non vuole?) più rimuovere.

Ma, attenzione. Non è un passaggio di folclore. E’ una fase di verità antropologica (essendo l’antropologia la scienza sociale dei riti collettivi). Quella che potrebbe spostare a scelte di saggezza una parte consistente di attuali cittadini astenuti. A saperci parlare.

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Stefano Rolando

Stefano Rolando è nato a Milano nel 1948, dove si è laureato in Scienze Politiche e specializzato alla Scuola di direzione aziendale della Bocconi. Tra vita e lavoro si è da sempre articolato tra Milano e Roma. E' professore universitario, di ruolo dal 2001 all’Università IULM di Milano dopo essere stato dirigente alla Rai e all'Olivetti; direttore generale dell'Istituto Luce, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Consiglio Regionale della Lombardia. Insegna Comunicazione pubblica e politica e Public Branding. Ha scritto molti libri sia su media e comunicazione che di storia, politica e questioni identitarie. Da giovanissimo è stato segretario dei giovani repubblicani a Milano, poi ha partecipato al nuovo corso socialista tra anni settanta e ottanta. Poi a lungo non appartenente. Più di recente ha lavorato sul civismo progressista (Milano e Lombardia) e su un progetto politico post-azionista in relazione al quale è parte della direzione nazionale di Più Europa.

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