La mostra milanese sulla ricostruzione dopo la guerra è il luogo simbolico visitato in questi giorni dai cittadini per cogliere il paragone con le condizioni del presente.
Milano, 25 ottobre 2020 – Ho visitato la mostra “Ma noi ricostruiremo” alle Gallerie d’Italia (Banca Intesa San Paolo) a piazza della Scala a Milano nel giorno in cui è stato attivato il “coprifuoco” che sta sterilizzando commerci e circolazione. La coincidenza non è solo una percezione soggettiva. E’ l’intento stesso di questo allestimento – per altro non visitabile se non con prenotazione, distanziamento, ingressi rallentati e molte cautele – che punta a stabilire una convergenza di clima. Non certo per equiparare i profili materiali, allora macerie diffuse dopo sei bombardamenti aerei in tutte le zone della città tra il 1943 e il 1944; ora un ordine sobrio e livido della città ai primi freddi, mentre prevale l’accoglienza della perorazione “state in casa”. Ma esplicitamente per cogliere il sentimento di rigenerazione che allora pervase la comunità e che il giornalista Mario Calabresi, curatore della mostra, indica come “la cosa che servirebbe di più anche ora”.
Non c’è milanese davvero legato all’evoluzione e alle trasformazioni della città che non collochi l’epopea della “ricostruzione” come un vero e proprio sentimento identitario.
Per altro avvenuta per la terza volta nella storia. Così come il parlamentare socialista, chimico, scrittore, poeta in versi, consigliere comunale del Psi a Milano dal 1951 al 1956, Alberto Cavaliere, scolpì nella sua “Storia di Milano in versi”: “Così risorse la città operaia, in un’ansia di vita e di riscossa, come risorse dopo il truce Uraia, come risorse dopo il Barbarossa: tornata più di prima a rifiorire, marcia serena verso l’avvenire”.
Il truce Uraia fu il protagonista nel 539 della prima distruzione di Milano nell’assedio che opponeva goti e bizantini nel controllo della città e di tutta la provincia romana di Liguria. La distruzione del Barbarossa fu la seconda nel 1162 – dopo le due lunghe epoche longobarda e carolingia – nella complessa storia (che vide la nascita della Lega lombarda) contro l’egemonizzazione imperiale dell’Italia settentrionale. Distruzione che liquidò quasi per intero l’eredità dell’urbanistica romana della città (da cui si salvarono a malapena le colonne di San Lorenzo). La trasformazione simbolica del fascismo in parte fu “modernizzante” (pur nel pomposo piacentinismo, tipo il Palazzo di Giustizia), riguardò l’interramento dei Navigli ma soprattutto gestì il cambiamento e la fascistizzazione della toponomastica di tradizione: piazza dei Mercanti divenne piazza Giovinezza mentre il futuro corso Matteotti era corso del Littorio ovvero via Cerva era via degli Arditi e via Nirone era via del Fascio. La terza distruzione di Milano avvenne tra il 1943 e il 1944, con gli uomini validi al fronte, molti sfollati, ma anche molti cittadini che per due anni rimasero nella penosa tensione delle sirene e nel frequente precipitarsi nei rifugi antiaerei allestiti nelle cantine.
142 Lancaster inglesi cominciarono la sera di San Valentino, il 14 febbraio del 1943, con raid di bombe in tutti i quartieri: 203 palazzi in macerie, 133 morti e 442 feriti gravi. Poi per altre cinque volte la tragedia si ripeté: tra il 7 e l’8 agosto (600 palazzi abbattuti, 161 morti e 281 feriti gravi). Immediatamente dopo, tra il 12 e il 13 agosto: qui sono 500 i bombardieri inglesi Lancaster, Stirling e Halifax che colpiscono il cuore della città, il Duomo, la Galleria, Palazzo Marino, piazza Fontana e persino Santa Maria delle Grazie. E ancora: la mattina del 20 ottobre i raid puntano sulla cintura industriale (Breda, Alfa, Isotta Fraschini) e realizzano il tristemente famoso bombardamento della scuola elementare di Gorla in cui morirono 184 bambini, molte maestre e la stessa direttrice. In città le vittime furono 614. Poi nel 1944 tutto si concentrò a ferragosto: di nuovo il Duomo, la Scala, la Rinascente (183 morti) e poi danni gravissimi al Castello, a Sant’Ambrogio, alla Cattolica, devastando di nuovo le zone industriali.
Bombe (sempre precedute da volantini di “spiegazioni”) in due fasi, prima e dopo l’8 settembre. Prima per premere sull’armistizio unilaterale italiano. Poi per fiaccare il fascismo repubblichino al nord e sollevare la popolazione contro i nazisti. La città in ginocchio contava i morti e fronteggiava il grande numero dei feriti senza acqua, senza luce e senza gas. La “causa antifascista e antinazista” di quei bombardamenti non cancella naturalmente la gravità di un reiterato progetto inevitabilmente finalizzato a colpire la popolazione civile.
Salvatore Quasimodo scrive “Milano. Agosto 1943”: “Invano cerchi tra la polvere/, povera mano, la città è morta./ E’ morta: s’è udito l’ultimo rombo/ Sul cuore del Naviglio”. Dice il curatore storico della mostra, Umberto Gentiloni: “La ferita non si cancella, ma la città in realtà non muore. La guerra prosegue attraverso prove impegnative fino alla primavera del 1945 quando la Liberazione di Milano, il 25 aprile, sarà il segno della fine del conflitti e dell’inizio di una nuova storia”.
Dopo il 25 aprile
Il 27 aprile del ’45 il Comitato di liberazione Alta Italia designa sindaco della città l’avvocato Antonio Greppi (socialista rifomista) che era stato tra i fondatori del Comitato, partigiano delle Brigate Matteotti, con il figlio Mario ucciso disarmato dalla milizia fascista il 23 agosto del 1944. Sarà lui a firmare l’appello “Milanesi!” (il testo è in mostra) per lanciare la battaglia morale, materiale e civile per la ricostruzione, che conterrà il “Ma noi tutto ricostruiremo” che dà il titolo alla mostra, con quel semplice e potente “ma” avversativo ma anche con quel “tutto” che non lascia niente fuori dal perimetro progettuale della rigenerazione. Un “tutto” che per ragioni di brevità titolistica è rimasto invece fuori dal titolo della mostra.
Dopo il 1951 il suo successore sarà Virgilio Ferrari, figlio di un garibaldino lombardo, nato a Pordenone e adottivo di Milano come lo stesso Greppi che era nato ad Angera sul lato varesino del lago Maggiore e come adottivi saranno il pisano Pietro Bucalossi e lo stesso Aldo Aniasi nato a Palmanova; mentre a Milano erano nati Gino Cassinis e Carlo Tognoli. Sarà dunque il sindaco Ferrari a svolgere la parte più rilevante dello sforzo ricostruttivo e a gestire con proverbiale probità le risorse finanziarie dell’impresa pubblica di ricostruzione.
Ma il primo grande segnale – materiale e simbolico – di questa storia era giunto l’11 maggio 1946 con l’inaugurazione del restaurato Teatro alla Scala, ricostruito dai danni in un solo anno dalle distruzioni causate dai bombardamenti aerei. Il concerto inaugurale, diretto dal maestro Arturo Toscanini appositamente rientrato dal suo lungo esilio americano, segnò l’immaginario collettivo degli italiani, diventando un punto di riferimento nella ricostruzione, anche psicologica, della città e della nazione.
Per la prima volta nella mia vita ho visto ieri mattina la fotografia dei resti della casa di mia madre (e della sua famiglia Anzà) in via San Gregorio, adiacente alla via Lecco, colpita chirurgicamente come buona parte del quartiere per via della progettata distruzione attorno alle vie ferroviarie. Una foto che vede troneggiare tra le macerie la scultura a pezzi di un gigante che si copre il capo con un braccio, è diventata l’immagine-manifesto dell’esposizione. Ed è dalla memoria di mia madre e di sua madre (che salvarono, durante i bombardamenti, due valigie di cose care correndo a piedi lungo i muri dalla Stazione a piazza Piola dove si sarebbe schiuso il ricovero ospitale da parte di una famiglia amica fino al giorno della Liberazione) che sono rimaste, dagli anni rasserenati del dopoguerra, le tracce della fortuna che la mia generazione aveva avuto nascendo dopo e non prima di quella guerra. Fortuna di crescere dentro lo spirito della ricostruzione che pervadeva le famiglie, le scuole, le fabbriche, i servizi pubblici, le parrocchie, che spingeva lo sguardo al futuro di tutti, abbandonando le gravi divisioni, pur dentro le nuove complessità che mantenevano i conflitti e il senso di dibattiti in libertà (il neorealismo italiano ha la sua principale pagina milanese dedicata a queste conflittualità in Rocco e i suoi fratelli della fine degli anni ’50).
Può sembrare un eccesso scomodare questa epopea – che ha contenuto tragedie e coraggi di una comunità dentro pari gravità e pari sentimenti di tante altre comunità in Italia e nel mondo – a fronte di una silenziosa guerra della salute che non ha prodotto nemmeno una crepa nei muri, nei palazzi, nelle opere d’arte.
Ma che vede di nuovo in impennata le curve dei contagi e dei decessi (siamo a 485 mila casi in Italia con oltre 37 mila morti, di cui il 46% si concentra tra Milano e la Lombardia: fino ad oggi 17.159 decessi nel quadro di 144 mila contagi accertati). Una guerra che porta in evidenza nel mondo 42 milioni contagi e 1,3 milioni di decessi. Ma soprattutto che riappare come un tunnel ancora senza luce di uscita. Salvo confuse ipotesi di normalizzazione per alcuni tra otto mesi (estate 2021) per altri a fine anno prossimo, per quasi tutti in dipendenza da una circolazione effettiva dei vaccini, che per ora restano questione di laboratorio.
E’ evidente che è in gioco un necessario scatto di volontà. A trovare i comportamenti corretti contro l’epidemia; ma anche a generare comportamenti reattivi e solidali verso tutto ciò che può trasformare il progetto di adattamento in un lenimento per la condizione sanitaria ma anche in una difesa concreta dell’economia e del lavoro. Uno scatto che ha bisogno di storie in cui “farcela” è stato un sentimento collettivo vincente.
Nella giornata di scoraggiamento dei cittadini a muoversi di casa questa mattina a Milano, i negozi erano tristemente vuoti, ma la mostra “Noi ricostruiremo” aveva una lunga fila a via Manzoni e una lunga lista di prenotati.
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